L'uomo in rivolta dice ad un tempo di sì e di no. Egli afferma, insieme alla frontiera, tutto ciò che avverte e vuol preservare al di qua della frontiera. Dimostra che c'è in lui qualche cosa per cui "vale la pena di...", qualche cosa che richiede attenzione. Oppone all'ordine che l'opprime una specie di diritto a non essere oppresso al di là di quanto egli possa ammettere. Insieme alla ripulsa rispetto all'intruso, esiste in ogni rivolta un'adesione intera e istantanea dell'uomo a una certa parte di sé. Per quanto confusamente, dal moto di rivolta nasce una presa di coscienza: la percezione, ad un tratto sfolgorante, che c'è nell'uomo qualcosa con cui l'uomo può identificarsi, sia pure temporaneamente. Questa identificazione, fin qui, non era realmente sentita. Tutte le concussioni anteriori al moto d'insurrezione, lo schiavo le sopportava. Un moto di rivolta non è nella sua essenza un moto egoista, e non nasce soltanto e necessariamente nell'oppresso, ma può, nascere anche dallo spettacolo dell'oppressione di cui è vittima un altro. La rivolta si distanzia dall'intossicazione del risentimento, non porta alla chiusura e la stagnazione, ma ad un sentimento attivo d'essere che aiuta a traboccare. La rivolta è un sentimento furioso, distante dal realismo del risentimento che punta ad essere ciò che non si è, l'uomo in rivolta rifiuta di lasciarsi toccare in quello che in se stesso trova più importante. [Camus, L'uomo in rivolta]