sabato 30 dicembre 2017

Appunti di clinica delle tossicodipendenze

Seguono due diverse letture della tossicodipendenza, una che la riferisce al disturbo borderline, l'altra al disturbo narcisistico. In chiusura un accenno di tecnica sulle insidie della relazione di transfert e controtransfert con il soggetto tossicodipendente e in conclusione un accenno sulle modalità peculiari di pensiero che lo caratterizzano. 

Se si ascoltano le narrazioni dei soggetti tossicodipendenti sul significato che attribuiscono all'uso di sostanze, sostanzialmente ci si arena, in prima battuta alla questione del piacere e solo in un secondo momento agli aspetti di fuga o realizzazione di una immagine idealizzata di sé che l'uso di sostanza permette. La riflessione stessa sullo scopo dell'assunzione in alcuni casi può generare fastidio e la risposta “ovvia”, se non inutile, tradendo l'aspetto difensivo del considerare l'assunzione di sostanze solo nel versante edonistico da parte del soggetto tossicodipendente. L'assunzione di sostanze può essere raccontato come un uscire da se stessi, scordarsi del proprio essere, sentirsi attraversati da desideri che da un lato diventano più forti, dall'altro per qualche ora diventano realizzabili. Con queste parole Correale identifica il conflitto di base all'uso di sostanze, che è al tempo stesso una ricerca di un rapporto più profondo con il reale ma al tempo stesso una fuga, un piegarlo al proprio desiderio. L'uso di sostanza diventa così una soglia, una soglia che porta in un mondo altro; ricordo il racconto di ospite di una comunità dove ho lavorato, che descriveva l'uso di eroina come la chiave per il mondo dei balocchi, "un mondo fantastico dove tutto è possibile", mentre mi raccontava tutto questo era facile avvertire dentro di me la sua immagine sorridente, nell'interazione con altri tossicodipendenti, con la quota di potere che l'uso di sostanza e l'attività di spaccio gli garantivano. Mi raccontava quindi della perdita delle inibizioni sociali, ma anche di quelle morali, che gli permettevano di compiere quelle diverse rapine per le quali adesso stava scontando un affidamento (misura giuridica alternativa alla detenzione) in comunità. In questa immagine è possibile quindi intravedere la complessità del fenomeno relativo all'assunzione di sostanze e la dipendenza che ne consegue. Da una parte gli aspetti personali e intrapsichici presenti nella metafora del mondo dei balocchi, che così ben si accordava con questi ragazzi, eterni pinocchio che nel processo terapeutico mirano a consumare prima lo zuccherino dell'azione pratica, per poi evitare la medicina amara dell'introspezione (la domanda del soggetto tossicodipendente all'ingresso in comunità è quasi sempre pratica, il voler ottenere il pacchetto-vita completo: casa, lavoro e compagna con poco o nullo interesse per quei fattori interni che hanno impedito il raggiungimento di questi scopi o li hanno fatti tramontare una volta raggiunti). Ma poi emergono tutti gli aspetti sociali del mondo altro del tossicodipendente, l'odiata e idealizzata “vita da strada” che lentamente il consumo di sostanze va costruendo intorno ad esso, aspetti sociali che hanno una forza strutturante l'identità della persona, limitando le possibilità di interazione con l'altro a relazioni di potere e manipolazione, modificando i sistemi di valore e i codici di interazione, andando a costituire quell'essere “antisociale”, che entra in conflitto con il sistema normativo e porta al reato, all'entrata in campo del sistema giuridico e carcerario, con tutto il potere ulteriormente strutturante che questi sistemi implicano. Al danno sociale, al danno relazionale e agli esiti giudiziari del comportamento del soggetto tossicodipendente, si somma il danno organico, sia per quanto riguarda le patologie infettive e funzionali delle quali lo stile di vita associato all'uso di sostanza aumenta il fattore di rischio, che per quanto riguarda il danno alle funzioni cerebrali. I lunghi anni di tossicodipendenza vanno infine a sommare al danno originario che ha portato all'uso di sostanze il deficit derivante da anni di interazioni mediate dall'uso di sostanze, ed è così che riprendendo la metafora della porta tra due mondi di cui la sostanza rappresenta la chiave, il soggetto tossicodipendente nel suo tentativo di rientrare nel mondo d'origine, oltre a dover affrontare tutto il carico di angosce che lo portarono a questo tentativo di fuga, si troverà di fronte ad un mondo ancor più alieno di quando lo aveva abbandonato. Vanno così a delinearsi i diversi vertici dell'intervento con il soggetto tossicodipendente, l'intervento clinico, giuridico, medico-sanitario e sociale, vertici che portano al rischio di veder fallire il progetto della persona se non portati avanti contemporaneamente, o a cicli intermittenti, ma che non possono essere appiattiti alla mera disintossicazione e al rientro nel sociale, in quanto questo ritorno riporterà a riemerge le angosce primarie, che si riaffacciano prepotentemente e rafforzate dagli anni di tossicodipendenza rendono la spinta a ritornare all'uso quasi invincibile. Emerge così che la sostanza, intesa in termini onnicomprensivi come tutto ciò che orienta la vita intorno a se stessa, che stacca lentamente dal mondo delle cose, per far entrare un mondo altro, di cui la sostanza è protagonista assoluta, passa dall'essere sintomo all'essere malattia. Nell'indagine della clinica della tossicodipendenza Correale scrive:

L'uso di sostanza in un primo tempo è l'esito di un fenomeno psichico, un pensiero, una rappresentazione, un vissuto, che deriva dall'incontro di più correnti psichiche ed espressione di una contraddizione, di una mancanza, di un tentativo di investimento più intenso del reale, di cui se ne vuole cogliere un lato nascosto, segreto e inaccessibile, ma al tempo stesso di un desiderio di ritiro dal reale, del quale si vuole cogliere solo il proprio desiderio di esso e non la sua effettiva consistenza. Ma nel tempo l'uso di sostanze e la dipendenza induce dei fenomeni di profonda modificazione secondaria del funzionamento psichico, gradualmente la mente si modella sul funzionamento della sostanza e lentamente assume modi di essere indotti dalla sostanza, per cui si pensa, si vive, si agisce sulla base degli effetti, sugli appuntamenti con la sostanza. In questo passaggio il sintomo è diventato malattia e tutte le cure corrono il rischio di diventare cura della malattia-sostanza e non dell'altra malattia: perché ho iniziato a far uso? Nel processo terapeutico è necessario arrivare al sintomo originario - perché prendo sostanze - attraverso la malattia (ti aiuto a prenderne di meno o a smettere) e solo un po' per volta si può arrivare al sintomo originario, alla mancanza e all'angoscia che hanno determinato l'uso o l'abuso della sostanza. E' una specie di cammino a ritroso, prima si affronta il problema della dipendenza, lentamente si ritorna all'angoscia originaria, che solo un po' alla volta viene a manifestarsi. 

Correale identifica quindi come stato mentale centrale nella tossicodipendenza l'angoscia, intesa con il significato dell'ultimo Freud: un segnale che avvisa del rischio, a partire da una situazione attuale, del riverificarsi di un trauma remoto. Per trauma si intende una situazione di stimolazione tale, eccitante e pericolosa assieme, che il soggetto non è in grado di rappresentare nella propria mente.  L'autore specifica in misura maggiore la qualità di questo sentimento definendolo come una angoscia di impotenza, di assoluta inermità, di essere nelle mani di qualcuno, essere in balia di, identificando tale stato mentale come tipico del soggetto borderline. La sostanza diventa quindi strumento per contrastare non solo l'angoscia conclamata, ma anche quella temuta, che si preannuncia con piccoli segnali premonitori e verso la quale non vi è completa consapevolezza. Oltre alla valenza intrapsichica dell'angoscia Correale ne sottolinea anche nella valenza interpersonale definendo il concetto di legame angosciante, legame caratterizzato da collusioni, patti inconsci, alleanze narcisistiche ed imposizioni subdole. In questo quadro la sostanza diventa uno strumento per liberarsi da questi legami, dando vita ad un mondo personale svincolato dai legami stessi, sia attraverso un isolamento grandioso e inattaccabile, sia nella ricerca spasmodica di chi condivide totalmente il mondo parallelo che si ricerca di creare, sia attraverso l'accettazione di quei legami che si sottomettono, in forma totale di subordinazione, al desiderio del tossicodipendente.

Tra i diversi disturbi di personalità che possono sfociare nella dipendenza l'autore identifica il disturbo borderline, non tanto inteso con la categoria diagnostica del DSM, ma come una situazione di personalità caratterizzata da una tendenza quasi costante alla disforia, intendendo con questo termine una scontentezza diffusa, una irritabilità, una reattività intesta e talora anche violenta a ogni genere di stimolo con caratteri di negatività. A tale stato di umore si associano comportamenti impulsivi, facilità agli acting, incontenibilità degli impulsi. Tali caratteristiche comportamentali portano a rapporti fondamentalmente instabili, caratterizzati da alternanze di benessere e malessere, affettuosità e polemica rotture e riconciliazioni, spesso nell'arco di tempi brevi.

Una descrizione secondo una diversa prospettiva è quella di Pinamonti che descrive la dipendenza patologica come caratterizzata da un'ansia specifica che esprime un senso di insicurezza generale, accompagnato da una eccessiva preoccupazione per l'immagine di sé e da un sentimento diffuso di incapacità a gestire le relazioni con gli altri e le richieste della realtà. Una peculiare forma di depressione, caratterizzata da un sentimento di fondo di sfiducia di sé e conseguentemente di sfiducia per il proprio futuro ed è permeato da cronici sentimenti di noia ed insoddisfazione e da momenti in cui emerge un acuto senso di vuoto. Nessuno di questi può però considerarsi un sintomo secondo la prospettiva psicoanalitica classica, ossia come l'espressione simbolica di un conflitto tra una pulsione che preme per un desiderio, e l'altra di natura difensiva, che vi si oppone. Il sintomo è infatti rappresentazione di un compromesso, ossia qualcosa di leggibile e interpretabile. Diversamente dal registro nevrotico, l'incapacità di costruire soluzioni simboliche è tipico della dipendenza patologica e si include all'interno del deficit di struttura. Tale deficit è un deficit narcisistico, collegato a specifiche aree che rappresentano il senso di identità, sicurezza e separatezza del Sé. Accanto quindi alla difficoltà di simbolizzazione, si riscontra la difficoltà ad identificare le emozioni, alle quali il soggetto si riferisce unicamente secondo la polarità malessere e benessere, condizione legate all'alessitimia. Il soggetto tossicodipendente fatica a delineare i confini tra Sé e Altro, a causa dei bisogni simbiotici e i profondi meccanismi di difesa che mette in campo per mantenere un senso di separatezza. La scarsa autostima deriva infine da un Super-Io primitivo e rigido, per il quale il senso della colpa non è parziale e totalizzante e l’Ideale Sé è improntato ad una richiesta di perfezione che lo rende schiacciante. Infine la difficoltà a prendersi cura di Sé porta il soggetto a sottovalutare i rischi legati al comportamento di dipendenza, con conseguenze autodistruttive in quanto non vi è percezione interna di pericolo, in questo caso nuovamente più che all'interno di un masochismo che appartiene al registro nevrotico ci si trova di fronte ad uno specifico deficit della capacità di prendersi cura di Sé.

Un ulteriore aspetto sottolineato dall'autore, riprendendo la definizione di Bollas relativa alle aree non pensabili della mente, riguarda una difficoltà di mentalizzazione di alcuni stati affettivi sorta da una non responsività della madre nei primissimi mesi di vita del bambino. Parla di relazione psicocorporea, all'interno del quale, il bambino, la cui mente è ancora indistinguibile dalla reazione corporea, impara attraverso la lettura della madre a leggere e contenere a sua volta i suoi stati fisico/emotivi. Una non corrispondenza durante i primi mesi di vita, che porta a fraintendere, se non addirittura a travisare gli stati del bambino, porta alla creazione di aree emotive che non possono essere pensate e quindi tanto meno espresse.

In adolescenza il difetto primario, ossia il deficit narcisistico e le difficoltà di simbolizzazioni portano il soggetto impreparato ad compito evolutivo di definire la propria identità sessuale. Questo passaggio, con il ripresentarsi dello scenario edipico, dovrebbe portare il soggetto alla perdita della dimensione simbiotica e di trasformazione dell'assetto onnipotente alla capacità di tollerare il confronto con il limite. Se in questo passaggio evolutivo il padre non fa da sponda, offrendosi come oggetto identificatorio e come modello, porta il soggetto a percepire la relazione con la madre come realmente incestuosa, vedendo ancora aumentata la propria onnipotenza, per il trionfo sulpadre e il venir meno del timore della castrazione, inteso come possibilità di accettare il limite. All'interno di questo scenario il Sé si inflaziona, il soggetto non può quindi passare da un Io ideale grandioso ad un ideale dell'io che regola l'autostima e sostiene mete e progetti all'interno di una prospettiva temporale esponendolo quindi al crollo narcisistico conseguente il confronto con la realtà e i relativi sintomi ansioso e depressivi già menzionati precedentemente.

Pinamonti scrive: "La sostanza in questo quadro assume quindi il ruolo di soluzione più che di sintomo, l'assunzione permette infatti di evacuare la tensione emotiva sostituendosi al pensare, attività che porterebbe ad aumentare tale tensione. La dimensione onnipotente di controllo delle emozioni, e la percezione di padronanza acquisita in questo modo, neutralizzano la bassa autostima. Il relazionarsi con la sostanza permette al soggetto l'instaurarsi il legame con un oggetto concreto, nella sicurezza del suo ritrovamento, che al tempo stesso funziona anche come difesa relazionale perché sostituisce gli intensi bisogni di dipendenza dall'altro preservando i confini del se e tutelandolo dall'esposizione alla frustrazione e alla disillusione dei legami. In questo quadro l'assunzione di sostanza permette di sopperire alla carenza di narcisismo, di ristabilire l'omeostasi del sé attraverso il ripristino dell'immagine onnipotente: nell'atto di assunzione il soggetto mette in atto una sorta di compulsione a ripetere in cui ricrea uno stato simbiotico ideale che soddisfa i suoi bisogni ponendolo al riparo dalla frustrazione. In questo modo il soggetto ripara, sia pure provvisoriamente i buchi del suo tessuto narcisistico. Il quadro di precario equilibrio si rompe quando il soggetto si sente controllato dalla dipendenza e si ripresenta quindi l'angoscia di essere inglobato nell'oggetto."

Etchegoyen nell'analisi del transfert del soggetto tossicodipendente, intende come tale ogni paziente che ricorre all'alcol o alle droghe come principale mezzo per mantenere l'equilibrio psichico, per alleviare l'ansia e per procurarsi una sensazione di piacere e di benessere. In particolare viene sottolineato come l'impulso del tossicodipendente diventa impossibile da soddisfare in quanto non nasce da un bisogno ma dall'avidità all'interno di una personalità caratterizzata da conflitti pregenitali ai quali si aggiungono pulsioni aggressive molto forti che si declinano nelle varianti sadiche e masochistiche. La rappresentazione della sostanza appare quindi come un oggetto idealizzato e oggetto cattivo e persecutore, portando ad una contemporanea idealizzazione e al rifiuto più severo, la sostanza cambia nella mente del tossicodipendente da strumento che protegge da ogni possibile dolore a persecutore capace delle più crudele distruzione. Tali vicissitudini coinvolgono anche la relazione transferale che oscilla continuamente dall'amore all'odio, dalla tenerezza alla più estrema violenza. La tossicodipendenza di transfert porta ad esperire l'analista come droga e antidroga: la relazione è possibile solo quando l'analista si trasforma nella sua droga (salvatrice e distruttrice) e allo stesso tempo, il legame di sana dipendenza analitica viene inteso, soprattutto per invidia, come minaccia della peggiore tossicodipendenza.

Lavorando in contesti comunitari è possibile identificare questi movimenti transferali non solo sulle singole figure curanti, ma sul contesto stesso di cura, la comunità arriva ad essere descritta alternativamente come possibilità di riscatto e come fonte peggiore di sofferenza. Il legame di reale dipendenza, che implica l'accettazione dei limiti della propria condizione, il bisogno dell'altro e la sua presenza vera, non solo immaginaria viene temuto e allontanato.

Un tratto distintivo della tossicodipendenza di transfert è che la dipendenza analitica tende a trasformarsi in un legame tossicomanico, di modo che la relazione analitica oscilli pendolarmente tra dipendenza e tossicomania. All'interno di questo legame è necessario identificare e interpretare la tendenza del paziente a ricevere le interpretazioni come una droga. Il tossicodipendente ricerca il flash (l'intensa sensazione di calore e piacere che procura l'assunzione di sostanza), e può arrivare a fare lo stesso uso dell'interpretazione, come anche del rimando educativo, che viene percepito come una salvifica rivelazione che non attiva però alcun processo trasformativo. Di contro si può andare configurando una situazione particolarmente dolorosa per l'analista ad opera dell'identificazione proiettiva: esso è il tossicodipendente dal suo paziente al solo scopo di soddisfare l'ossessione di curarlo e di ripulirlo, cioè usandolo come oggetto-cosa per risolvere i propri problemi personali.

Ogden individua tre diverse forme di pensiero: magico, onirico e trasformativo. La prima forma è quella che più frequentemente si incontra con il soggetto tossicodipendente. Tale forma di pensiero ha un obiettivo principale, l'evitare di affrontare la realtà della propria esperienza interna ed esterna, tale obiettivo è raggiunto tramite uno stato della mente in cui l'individuo crede di aver inventato la realtà in cui lui e gli altri vivono. In questo modo la sorpresa emotiva e gli incontri con l'imprevisto sono forclusi dall'esperienza. Con lo scopo di salvaguardare l'integrità del suo sé il soggetto si difende attraverso fantasie onnipotenti virtualmente onnicompresive che lo distaccano dalla realtà esterna, tanto che il pensiero diventa delirante e allucinatorio. Avviene così un progressivo deterioramento della capacità dell'individuo di distinguere il sogno dalla percezione, il simbolo dal simbolizzato.  Questo porta ad una situazione in cui il paziente tratta i suoi pensieri e sentimenti come se fossero fatti, e non esperienze soggettive. A titolo di esempio: nella mania e l'ipomania il soggetto ricorre a difese maniacali per avere un controllo assoluto sull'oggetto mancante. Dunque non ha perso l'oggetto, lo ha rifiutato, non piange, ma celebra la perdita dell'oggetto perché sta meglio senza di lui, la perdita non è una perdita perché l'oggetto è deplorevole e privo di valore. La parola perde così il proprio valore, ci si può rivolgere ad un'altra persona in modo crudele e poi credere di poter letteralmente riprendersi il commento (ricreando al realtà per esempio dicendo che era uno scherzo). Il pensiero magico è molto conveniente, in quanto si ovvia al bisogno di affrontare la verità di quello che è accaduto. Ma per quanto sia conveniente il pensiero magico ha un inconveniente primario: non funziona, non si può costruire nulla su di esso, se non ulteriore strati di costruzioni magiche. E' un pensiero privo di aderenza al mondo reale, a ciò che è al di là della propria mente, costituisce un attacco sia al riconoscimento della realtà sia al pensiero stesso, coincidendo quindi con una forma di anti-pensiero). Niente o nessuno può essere costruito sul pensiero magico poiché "la realtà" onnipotente creata manca di quell'assoluta inamovibilità della alterità propria della realtà esterna concreta. L'esperienza dell'alterità della realtà esterna è necessaria per la creazione un'autentica esperienza di sé. Se non c'è un non-me non può esserci nemmeno un me.

[continua]