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"C'è un a priori, massiccio, mai denunciato in maniera sufficientemente radicale: ovvero che parlare non possa essere altro che dire una certa cosa, già relativamente circoscritta e individuata, che la parola va ad identificare non appena si parla. Detto altrimenti, che la parola debba lasciarsi soggiogare da "un qualche cosa", che debba rispondere a un "che cosa?", che debba vedersi assegnare un "oggetto": che ci sia immancabilmente bisogno di un oggetto del dire affinché il dire sia certo di essere, allo stesso tempo, praticabile e legittimo".
Costatato questo a priori, Jullien Francois si interroga sulla presenza di un resto nella parola, un resto del quale si siano perse le potenzialità. Si domanda sulle risorse di ciò che è parlare, sulla possibilità di riesplorare le potenzialità di questo atto in modo non meno scrupoloso di come oggi vengono riesplorate e valutate risorse di ogni genere perché sulla terra iniziano a scarseggiare. Porta ad interrogarsi quali riserve, quali giacimenti rinvenibili in altre culture siano stati negligentemente lasciati inesplorati.
Fondativo dell'uso del linguaggio limitato "al dire qualche cosa" Jullien trova già l'opera di Aristotele, per il quale, e dal quale, parte la strettissima associazione tra dire/significare e l'enunciazione del principio primo, che non dipende da nient'altro, e a monte del quale non è possibile andare: il principio di non contraddizione. Definizione del parlare che però non può far tacere l'inquietudine che nasce e si insinua alle sue spalle, il fatto che tale definizione si lascia sfuggire l'esperienza più comune, che considerare il "dire" sempre "significare" un qualche cosa mortifica già da subito le potenzialità di indeterminazione del senso della parola, indeterminazione che emerge e si riflette nei suoi più variegati usi, ad esempio poetici.
Tra le innumerevoli definizioni del poetico in questo caso ci si può attenere alla seguente: il poetico è ciò che non si lascia ridurre al dire qualche cosa e al significare qualche cosa. La poesia consiste nel dire senza scindere: al di sotto della disgregazione operata abitualmente dal linguaggio, è proprio la poesia che si dà il compito di "rompere per noi l'assuefazione" o di depurare le parole, che stabilisce connivenze, e mantiene tutto abbracciato. Il suo dire è comprensivo e liberato dall'esclusività. E possibile domandarsi se il carattere intrisicamente sognante che si attribuisce nostalgicamente al poetico (ma non interpretabile come un disimpegno nei confronti del mondo), e che certamente non appartiene al poeta ma al testo stesso, non esprima l'aspirazione a preservare questa intrinseca correlazione che indica al linguaggio il suo paradiso perduto: dove la parola non è solo atta a significare, in un regime di non contraddizione, ma tesa ad altro, quel qualcosa d'altro per il quale la parola della scienza (logos) rassicura, mentre l'arte (antilogos) inquieta.
Prosegue Francois affermando come la parola, il pensiero occidentale, debba, per mantenersi logico, essere incluso in due estremi, un principio, a monte del quale vi è solo l'illogicità, e che Aristotele pone nella non contraddizione, o anche una causa prima, non causata da nulla, a partire dalla quale tutte le altre conseguono e si spiegano. Questo impedisce una regressione all'infinito, all'interno della quale il pensiero rimarrebbe dissolto, ma al tempo stesso deve essere impedita una progressione illimitata, per cui il logos, il pensiero, deve essere delimitato anche da una finalità ultima.
"In questo modo è fissato quindi a monte un primo principio e fissato a valle un obiettivo ultimo, obiettivo di tutti gli obiettivi, polo verso il quale convergono tutte le mie aspirazioni e Fine supremo. Dispiegando il logos tra queste due estremità, delimitando così da entrambi i lati, inquadro la mia vita tra Dio, posto al principio dell'universo o del moto, e la ricerca della Felicità, posta come Fine ultimo della mia vita, gesto eminentemente europeo: la mia vita, rischiarata dalla luce del logos, tra luna e l'altra estremità del pensabile (articolabile), fa di questa traversata un destino."
Questa necessità di fondare la legittimità di un logos fissandone un limite dalle due parti, quella di partenza e di arrivo è finalizzata all'ossessione di Aristotele di preservare il logos dall'illimitato. Di respingere il vago (l'indefinito, l'incerto, l'indistinto) al di là dell'orizzonte del pensabile e dell'articolabile, di preservare il pensiero dall'infinito.
Ciò che fa da principio, avviando la possibilità stessa del pensiero, è necessariamente il partire da qualcosa di "non spiegato", infatti nel tentativo di voler cercare un logos di (su) ogni cosa automaticamente abolisce la possibilità del logos, e con esso, qualsiasi sapere. E' impossibile eliminare il logos mettendone in discussione il principio di identità (il principio di non contraddizione, il "non spiegato"), mentre è inevitabile che lo si elimini se lo si estende eccessivamente; a voler rendere conto di tutto non si rende più conto di niente. Il destino congiunto, assiomatico, della scienza e della filosofia, o per lo meno di quella che può rivendicare l'eredità di Aristotele dipende dal riconoscimento e dalla delimitazione di questo non spiegato iniziale, che il logos stesso, lungi dall'occultare come un assunto che non riesce a riconoscersi come tale, mostra come sua condizione di possibilità: il logos opera esclusivamente all'interno e per mezzo di limiti.
Il principio di non contraddizione presuppone un'identità delle proprietà o "caratteristiche" dell'essere in questione e sono queste che il logos enuncia come definizione. A tale approccio si contrapponevano i sostenitori del mobilismo universale, del tutto "scorre", non v'è niente che esista di per sé, che abolivano sin dal principio la possiblità di una qualsiasi proprità delle cose e, conseguentemente, di qualsivoglia definizione.
Aristotele replicava: "E' grazie all'arrestarsi e al rimanere ferma che la ragione pensa e conosce". Aristotele non esita a collegare episteme, "la scienza", alla radice stenai "fermarsi". A partire da questo momento la filosofia europea ha maturato a lungo tale dilemma fino ad esserne esausta: se definisco io stabilizzo e, di conseguenza, fisso e immobilizzo indebitamente ciò che per natura è sempre "in movimento" (ma se non rendo stabile e non definisco dovrò rinunciare alla conoscenza e la scienza ne sarà il prezzo). Se infatti da un lato sospettiamo che la definizione imponga la propria rigidità, nondimeno dovremmo riconoscere quanto essa offre in termini di comodità. Se anche l'accusiamo di arbitrarietà e quindi, di una certa falsità, nondimeno riconosciamo che è necessario stringere all'interno di questa morsa tutto ciò che, dalle cose, scorre, così da avare presa su di esse e poterle maneggiar per mezzo della parola e poter quindi agire e conseguire un effetto.
La definizione è passibile di farci perdere non tanto l'essenza intima, individuale e quindi ineffabile della cosa, quanto l'effettività attraverso cui "qualcosa" è in grado di verificarsi, di realizzarsi.Vi è non-coincidenza, se non palese contraddizione, tra il segno caratteristico, o determinatezza, che la definizione riesce a cogliere, e ciò che a titolo processuale, ha permesso il prodursi di tale determinazione. Sotto la determinatezza che la definizione enuncia, è lo sterile che viene colto, non il fecondo. La definizione esprime la capacità delle cose mentre essa si sta già disperdendo: ne esprime solamente l'uniforme, l'insipido e l'immobile. Per immobile intendo piuttosto ciò che è morto e pietrificato, in quanto già abbandonato dalla sua capacità: in esso il reale si lascia distaccare e percepire anatomicamente in termini di attributi, poiché questi ultimi si sono già un po' ritratti. Perciò questo immobile è anche ciò che viene esibito: la definizione esprime quanto viene esibito dalle cose, esprime ciò che di esse, funzionalmente si rende visibile e le fa riconoscere e individuare. La definizione le cattura a valle, allo stadio in cui la loro potenzialità di prodursi, si è già irrigidita e inaridita: i tratti caratteristici sono dei tratti induriti, già sclerotizzati.
Prendiamo un uomo "pio"; qualcuno che gli altri chiamano pio, che si crede pio, che in ogni modo pretende di esser pio: già immaginiamo che la sua sarà una pietà spenta, piatta, gretta, meschina. La sua virtù non è ipocrita, ma povera: per il semplice fatto che si lascia identificare da segni tangibili essa perde lo slancio che, dispiegato senza oggetto né progetto, dovrebbe effettivamente costituire il suo principale pregio; quello slancio che per sua natura, è però troppo intenso e indiviso, troppo diffuso e allo stesso tempo disinvolto perché lo si possa isolare e, di conseguenza, identificare. Osservate d'altra parte come le virgolette prudentemente aggiunte, persino nell'oralità "i piccoli segni mimati con le dita", siano un prezioso avvertimento. Sono indice di una diffidenza. Graffiano, a suo passaggio, ciò che è troppo agevolmente scivola nella parola, ciò che è troppo accettato, troppo facilmente identificato per non risultare sospetto: questa determinatezza è troppo marcata e generalmente accettata perché non nasca il sospetto che si sia un po' svuotata dal suo senso. Attraverso le virgolette io denuncio l'eccessiva esplicitazione formale che troppo agevolmente coincide con la propria definizione e così la metto nuovamente a distanza. Saranno sufficienti a far intuire le mie riserve, io stesso non sono più sicuro di farmi completamente carico di un enunciato che è troppo conosciuto, troppo ben collocato all'interno dei termini della definizione e come tale etichettato per non esigere il proprio rovesciamento.
Ed è così che per quanto non si metta in dubbio che l'uomo riconosciuto come virtuoso desideri effettivamente essere virtuoso, il problema è che egli incalza troppo da vicino la virtù, in modo troppo diligentemente a ciò che viene definito come "ideale di virtù" e compie così, una ad una, delle azioni virtuose troppo facilmente identificabili, che sono certamente degne di lode, ma che lo portano a non cogliere ciò che effettivamente fa della virtù uno scaturire inesauribile. La non-coincidenza tra effettività e determinatezza: tra, da una parte, la capacità dell'opera che nel suo scaturire deborda e smantella ogni possibile determinazione e, dall'altra parte, ciò che della determinazione diviene quando si codifica e favorisce la definizione, ormai completamente circoscrivibile e perciò specificabile: una frammentazione di determinatezze specifiche che, nella loro meticolosa etichettatura, non colgono più nulla di ciò da cui scaturiscono. [Parlare senza parole, Francois Jullien, 2006]
Prosegue Francois affermando come la parola, il pensiero occidentale, debba, per mantenersi logico, essere incluso in due estremi, un principio, a monte del quale vi è solo l'illogicità, e che Aristotele pone nella non contraddizione, o anche una causa prima, non causata da nulla, a partire dalla quale tutte le altre conseguono e si spiegano. Questo impedisce una regressione all'infinito, all'interno della quale il pensiero rimarrebbe dissolto, ma al tempo stesso deve essere impedita una progressione illimitata, per cui il logos, il pensiero, deve essere delimitato anche da una finalità ultima.
"In questo modo è fissato quindi a monte un primo principio e fissato a valle un obiettivo ultimo, obiettivo di tutti gli obiettivi, polo verso il quale convergono tutte le mie aspirazioni e Fine supremo. Dispiegando il logos tra queste due estremità, delimitando così da entrambi i lati, inquadro la mia vita tra Dio, posto al principio dell'universo o del moto, e la ricerca della Felicità, posta come Fine ultimo della mia vita, gesto eminentemente europeo: la mia vita, rischiarata dalla luce del logos, tra luna e l'altra estremità del pensabile (articolabile), fa di questa traversata un destino."
Questa necessità di fondare la legittimità di un logos fissandone un limite dalle due parti, quella di partenza e di arrivo è finalizzata all'ossessione di Aristotele di preservare il logos dall'illimitato. Di respingere il vago (l'indefinito, l'incerto, l'indistinto) al di là dell'orizzonte del pensabile e dell'articolabile, di preservare il pensiero dall'infinito.
Ciò che fa da principio, avviando la possibilità stessa del pensiero, è necessariamente il partire da qualcosa di "non spiegato", infatti nel tentativo di voler cercare un logos di (su) ogni cosa automaticamente abolisce la possibilità del logos, e con esso, qualsiasi sapere. E' impossibile eliminare il logos mettendone in discussione il principio di identità (il principio di non contraddizione, il "non spiegato"), mentre è inevitabile che lo si elimini se lo si estende eccessivamente; a voler rendere conto di tutto non si rende più conto di niente. Il destino congiunto, assiomatico, della scienza e della filosofia, o per lo meno di quella che può rivendicare l'eredità di Aristotele dipende dal riconoscimento e dalla delimitazione di questo non spiegato iniziale, che il logos stesso, lungi dall'occultare come un assunto che non riesce a riconoscersi come tale, mostra come sua condizione di possibilità: il logos opera esclusivamente all'interno e per mezzo di limiti.
Il principio di non contraddizione presuppone un'identità delle proprietà o "caratteristiche" dell'essere in questione e sono queste che il logos enuncia come definizione. A tale approccio si contrapponevano i sostenitori del mobilismo universale, del tutto "scorre", non v'è niente che esista di per sé, che abolivano sin dal principio la possiblità di una qualsiasi proprità delle cose e, conseguentemente, di qualsivoglia definizione.
Aristotele replicava: "E' grazie all'arrestarsi e al rimanere ferma che la ragione pensa e conosce". Aristotele non esita a collegare episteme, "la scienza", alla radice stenai "fermarsi". A partire da questo momento la filosofia europea ha maturato a lungo tale dilemma fino ad esserne esausta: se definisco io stabilizzo e, di conseguenza, fisso e immobilizzo indebitamente ciò che per natura è sempre "in movimento" (ma se non rendo stabile e non definisco dovrò rinunciare alla conoscenza e la scienza ne sarà il prezzo). Se infatti da un lato sospettiamo che la definizione imponga la propria rigidità, nondimeno dovremmo riconoscere quanto essa offre in termini di comodità. Se anche l'accusiamo di arbitrarietà e quindi, di una certa falsità, nondimeno riconosciamo che è necessario stringere all'interno di questa morsa tutto ciò che, dalle cose, scorre, così da avare presa su di esse e poterle maneggiar per mezzo della parola e poter quindi agire e conseguire un effetto.
La definizione è passibile di farci perdere non tanto l'essenza intima, individuale e quindi ineffabile della cosa, quanto l'effettività attraverso cui "qualcosa" è in grado di verificarsi, di realizzarsi.Vi è non-coincidenza, se non palese contraddizione, tra il segno caratteristico, o determinatezza, che la definizione riesce a cogliere, e ciò che a titolo processuale, ha permesso il prodursi di tale determinazione. Sotto la determinatezza che la definizione enuncia, è lo sterile che viene colto, non il fecondo. La definizione esprime la capacità delle cose mentre essa si sta già disperdendo: ne esprime solamente l'uniforme, l'insipido e l'immobile. Per immobile intendo piuttosto ciò che è morto e pietrificato, in quanto già abbandonato dalla sua capacità: in esso il reale si lascia distaccare e percepire anatomicamente in termini di attributi, poiché questi ultimi si sono già un po' ritratti. Perciò questo immobile è anche ciò che viene esibito: la definizione esprime quanto viene esibito dalle cose, esprime ciò che di esse, funzionalmente si rende visibile e le fa riconoscere e individuare. La definizione le cattura a valle, allo stadio in cui la loro potenzialità di prodursi, si è già irrigidita e inaridita: i tratti caratteristici sono dei tratti induriti, già sclerotizzati.
Prendiamo un uomo "pio"; qualcuno che gli altri chiamano pio, che si crede pio, che in ogni modo pretende di esser pio: già immaginiamo che la sua sarà una pietà spenta, piatta, gretta, meschina. La sua virtù non è ipocrita, ma povera: per il semplice fatto che si lascia identificare da segni tangibili essa perde lo slancio che, dispiegato senza oggetto né progetto, dovrebbe effettivamente costituire il suo principale pregio; quello slancio che per sua natura, è però troppo intenso e indiviso, troppo diffuso e allo stesso tempo disinvolto perché lo si possa isolare e, di conseguenza, identificare. Osservate d'altra parte come le virgolette prudentemente aggiunte, persino nell'oralità "i piccoli segni mimati con le dita", siano un prezioso avvertimento. Sono indice di una diffidenza. Graffiano, a suo passaggio, ciò che è troppo agevolmente scivola nella parola, ciò che è troppo accettato, troppo facilmente identificato per non risultare sospetto: questa determinatezza è troppo marcata e generalmente accettata perché non nasca il sospetto che si sia un po' svuotata dal suo senso. Attraverso le virgolette io denuncio l'eccessiva esplicitazione formale che troppo agevolmente coincide con la propria definizione e così la metto nuovamente a distanza. Saranno sufficienti a far intuire le mie riserve, io stesso non sono più sicuro di farmi completamente carico di un enunciato che è troppo conosciuto, troppo ben collocato all'interno dei termini della definizione e come tale etichettato per non esigere il proprio rovesciamento.
Ed è così che per quanto non si metta in dubbio che l'uomo riconosciuto come virtuoso desideri effettivamente essere virtuoso, il problema è che egli incalza troppo da vicino la virtù, in modo troppo diligentemente a ciò che viene definito come "ideale di virtù" e compie così, una ad una, delle azioni virtuose troppo facilmente identificabili, che sono certamente degne di lode, ma che lo portano a non cogliere ciò che effettivamente fa della virtù uno scaturire inesauribile. La non-coincidenza tra effettività e determinatezza: tra, da una parte, la capacità dell'opera che nel suo scaturire deborda e smantella ogni possibile determinazione e, dall'altra parte, ciò che della determinazione diviene quando si codifica e favorisce la definizione, ormai completamente circoscrivibile e perciò specificabile: una frammentazione di determinatezze specifiche che, nella loro meticolosa etichettatura, non colgono più nulla di ciò da cui scaturiscono. [Parlare senza parole, Francois Jullien, 2006]