La modalità d'uso del linguaggio da parte del soggetto tossicodipendente è uno degli aspetti maggiormente peculiari all'interno della relazione terapeutica con esso. Tale linguaggio colpisce per quanto è stereotipato, conformista, con la tendenza a coprire più che a svelare. Ha le caratteristiche di una voce fatua, finta, che non veicola alcun messaggio e sembra aver perso il suo scopo interpersonale a favore di uno prettamente intrapsichico. Con questo non voglio dimenticare l'uso manipolatorio del linguaggio da parte del soggetto tossicodipendente, atto ad ottenere benefici, il tiro in più di coca o il punto in più di ero, ma centrare l'attenzione sull'uso del linguaggio al fine di mantenere una omeostasi psichica, tenendo in piedi il falso Sé che spesso caratterizza questi soggetti. Ho già riportato come Ogden, in Vite non vissute descriva il pensiero magico che caratterizza alcuni persone, un pensiero magico che non descrive la realtà, ma la crea al fine di allontanare il soggetto dal conflitto tra i propri desideri e la loro realizzazione, annullando le emozioni disturbanti al costo della rinuncia a qualsiasi potere trasformativo del pensiero. Il non-pensiero magico, è un pensiero chiuso, sul quale non è possibile costruire alcunché, ma solo ulteriori stratificazioni di pensiero delirante più o meno manifesto. Fonagy nel descrivere il disturbo borderline, usando come vertice descrittivo il concetto di mentalizzazione, da una chiave esplicativa del fenomeno in cui il linguaggio non parla e non comunica alcuno stato di sé. Nel descrivere le modalità di pensiero primitive nel bambino, l'autore ne distingue una che pone sullo stesso piano l'interno e l'esterno. Nell'equivalenza psichica ciò che esiste nella mente deve esistere nel mondo esterno e ciò che esiste all'esterno deve necessariamente esistere anche all'interno della mente. La conoscenza del mondo esterno non contempla le differenze, giacché questo è isomorfico al mondo interno. Nella seconda modalità, quella del "far finta", lo stato mentale del bambino è separato dalla realtà esterna o fisica, ma lo stato interno è concepito come privo di qualsiasi connessione con il mondo esterno. L'esperienza interiore del bambino è isolata dal resto dell'io. In tale modalità non c'è alcun collegamento tra finzione e realtà, il bambino può credere, utilizzando una sedia come carro armato, che questa sia effettivamente un carro armato e non aspettarsi tuttavia che questo spari colpi veri. Tale spazio sembra essere quello che Freud nel 1924 descriveva come "un regno che fu separato dal modo esterno reale e da allora è stato risparmiato dalle esigenze e dalle necessità della vita, come una sorta di territorio protetto, non accessibile all'io ma ad esso legato in modo labile". Fonagy sottolinea come né la modalità del far finta, né quella dell'equivalenza psichica possono generare esperienze interne interamente assimilabili all'intrinseca realtà interiore; l'equivalenza psichica è troppo reale laddove il far finta eccede nell'irreale. E' dall'integrazione di queste due modalità che il bambino arriva alle strategie di mentalizzazione o funzione riflessiva, in cui i pensieri e sentimenti sono percepiti in qualità di rappresentazioni. Si riconosce il legame esistente tra realtà interna ed esterna, così come la distinzione tra le due, e non è più necessario che queste siano assimiliate oppure scisse.
Nell'attività clinica con i pazienti borderline, le parole riferite a stati interni sono spesso le più utilizzate da parte del terapeuta con l'aspettativa che queste avranno un impatto reale sul paziente. Tuttavia quando il paziente funziona secondo le modalità del far finta, le parole possono essere comprese ma non avere implicazioni affettive per il soggetto a cui queste parole sono state dette. La terapia può andare avanti per settimane, mesi o anni, in una realtà psichica declinata secondo una modalità del far finta, laddove gli stati interni sono oggetto di lunghe discussioni, con accuratezza e complessità, senza che non si realizzi alcun progresso. Anzi, insieme ad un uso preconfezionato di termini e stati mentali, un'eccessiva complessità, un intervento simultaneo di formulazioni inconciliabili o una loro sollecita variazione sono tutti indizi rivelatori di un processo terapeutico che esita nella modalità del far finta. Ci sono moltissimi indizi che rivelano queste manifestazioni di un alto livello di mentalizzazione che in realtà rappresenta uno scivolamento nella modalità del far finta: in primo luogo il tratto ossessivo, i pazienti cominciano a trascorrere la maggior parte delle loro ore di veglia a riflettere su di sé e la loro attività terapeutica. Ma con il passare del tempo si rivela l'esistenza di schemi mentali di pensiero fortemente disomogenei che si alternano rapidamente. Pensieri e sentimenti non mostrano stabilità, il paziente sembra inconsapevole di questa contraddizione e rimane sbalordito se il terapeuta la mette in discussione. In generale è meglio non mettere il paziente di fronte all'incongruenza, per lo meno all'inizio, poiché in una modalità del far finta essi non hanno alcun accesso a una comprensione pregressa degli altri. Infine tali elaborazioni spesso eccessivamente ricche, tal volta contorte, fantastiche o irrealistiche sono associate ad una certa riflessività che si rivela povera di implicazioni pratiche. Infine nessuno stato d'animo è realmente sentito. Il paziente parla di un affetto ma, al tempo stesso non lo sente. Nel processo terapeutico la seduzione agita dalla modalità del far finta in cui la mentalizzazione sembra ben sviluppata, aumenta la probabilità d'istruire una strada che invalida il fine stesso della terapia. Questa diventa una rappresentazione teatrale fondata su una ridondante autoreferenzialità. L'autore sottolinea come sia necessario evitare d'incoraggiare un'iperattività della mentalizzazione o pseudo mentalizzazione, evitando di parlare di stati mentali complessi, suggerisce che gli interventi siano sintetici e mirati, senza interpretazioni complesse o lunghe di stati mentali o comportamenti. Le sedute dovrebbero essere concertate e non dispersive, evitando di spingere i pazienti ad un'eccessiva elaborazione: il terapeuta deve tener presente che l'apparente capacità di mentalizzazione è in realtà un deficit e non una risorsa.
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