venerdì 10 febbraio 2012

Il campo di concentramento: l'identità, la disidentità e l'an-identità.

[…] La guerra, le migrazioni, il caos, tristi animali dell’apocalisse a cavallo tra i due millenni, interessano dunque qui non solo perché ci precipitano nel dramma dei nostri giorni e perché proiettano una nube plumbea sul nostro futuro, ma anche perché intersecano in maniera decisiva le vicende dell’identità e della disidentità. La guerra ha il fascino magnetico della lucida bipenne che ordina il disordine, che normalizza il caos: di qua del taglio netto ci siamo noi, gli identici omologati dalla medesimezza; di là, fuori, ci sono gli altri, i non identici, i diversi che minacciano la nostra salvezza facendosi specchio del nostro caos terrorizzante. Come una perfetta geometria appare allora agli occhi di ogni gruppo di identici, di co-identici nella medesimezza, il fatto che il Kosovo ha il suo nemico nella Serbia, esattamente come la Nato ha il suo nemico nella Serbia, esattamente come la Serbia ha il suo nemico nella Nato e nel Kosovo; che da quella parte, o dall’altra, si lotta per l’indipendenza, mentre dalla parte simmetrica si lotta per l’asservimento dei popoli. Ma la guerra, figlia del caos e dei metissaggi delle migrazioni, si trasmuta in prolifica madre di caos e di migrazioni, sfociando sempre più spesso e sempre più massicciamente nella forma della pulizia etnica, paradossalmente scatenata proprio per normalizzare il caos, per purificare il diverso perché gli accade di parlare una lingua diversa, di provenire da una razza diversa, di adorare un dio diverso.

Ora, le migrazioni alle quali assistiamo, per molti aspetti drammatici e disperati, sono probabilmente uguali a tutte le migrazioni di tutti i tempi; un fenomeno spaziale di masse di individui senza orizzonte che attraversano un limite, escono da un luogo proprio per entrare in luogo d’altri, diventando, nel collo della clessidra, stranieri rispetto alla terra da cui sono partiti e stranieri verso la terra di approdo. Ma nelle migrazioni attuali, - sembra non esserci ostacolo all’escalation dell’orrore, - troviamo un fenomeno che in qualche modo rappresenta un perfezionamento delle situazioni concentrazionarie. Ai migranti cacciati dal Kosovo non solo vengono sottratti beni e soldi, ma vengono tolti i documenti, strappate le targhe delle auto, bruciati i libretti di circolazione. Dopo, nessuno può chiamarli, perché sono senza nome; nessuno può riconoscerli perché sono state cancellate le loro coordinate di origine e di appartenenza; nessuno sa da dove vengono né dove vanno, perché propriamente, non vengono da nessuna parte e non vanno da nessuna parte. Come chi è senza nome. I nuovi tragici migranti semplicemente non sono. Non uguali a chi li caccia ma nemmeno differenti, impossibilitati ad accedere alle differenze dell’identità sono resi an-identici, secondo il concetto introdotto da Antonino Minervino. Una volta però approdati sulle nostre terre della ricchezza inaudita, gli ospiti nuovi an-identici, senza abiti e senza nome, gli stranieri venuti dal fango e dal mare diventano lo specchio allucinato dell’anima in cui ciascuno di noi incontra l’immagine delle proprie metamorfosi che non ha mai voluto vedere: il morto vivente, la larva farfalla, il Minotauro mostro e fratello. E da qui potrà ricominciare l’inesausto ritorno delle figure immutabili del ciclo, sulle tracce di un Teseo sempre disposto a riportare l’ordine nel caos, a purificare gli spazi contaminati dall’ospite ibrido, sia con la furbizia del gomitolo sia con la violenza della spada. Ma, anche nei giorni della guerra, delle migrazioni, del caos, la disidentità ci consente la scelta di abitare il labirinto assieme al Minotauro, senza gomitolo e senza spada. […] [Disidentità, Lai G., 1999]

sabato 4 febbraio 2012

"Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere" (Gb 42, 5-6)





"Gerard Haddad"

"Il simbolo vuol dire del linguaggio, questo linguaggio è moderato e organizzato da una legge interna al linguaggio e possiamo dire che è il complesso di Edipo e anche lui permette di organizzare questo mondo simbolico strutturato con questo complesso di Edipo, il terzo punto che lui chiama del reale, una cosa che non è ne immaginaria ne simbolica non possiamo ne parlarne ne immaginarla, dunque è qualcosa di impossibile, il réel è l’impossibile. Quale è l’impossibile, Lacan ha detto questo l’impossibile è il campo di concentramento e l’impossibile del nostro tempo è il campo di concentramento, è scritto così stampato venduto potete comprare il libro e vedere che non racconto delle barzellette. Questa parola réel, io l’ho preso molto sul serio perché anche nella mia analisi, una analisi didattica o non didattica, una analisi vera mi sembra l’incrocio l’incrociamento, l’incrocio, tra le esperienze vissute tra la cura e certe letture teorie che prendono allora un’altra dimensione. Lacan faceva la differenza tra il sapere e la verità, il sapere si può trovare nei libri, in google, all’università tra i libri buoni o non buoni siamo sommersi dalla conoscenza, dal sapere. Ma c’è un’altra cosa che è diversa che si chiama la Verità, la verità significa che ad un certo momento della vita facciamo degli incontri che ci fanno una specie di shock un incontro dal quale cresce un sapere altro che cambia la nostra vita. Io prendo un esempio della Bibbia che mi piace molto, è l’esempio di Giobbe, Giobbe in ebraico alla fine ha detto a dio “fino adesso credevo in te perché avevo sentito parlare di te, ma adesso ti ho incontrato” E dunque il sapere di dio era diverso era dall’incontro non era qualcuno che gli ha insegnato, ma lui ha toccato, va beh non c’è niente da toccare in Dio, va beh mi avete capito."