martedì 18 dicembre 2012

Il disagio della civiltà

Ci chiediamo quindi che cosa attraverso il loro comportamento gli uomini ci facciano riconoscere come scopo della loro vita. Sbagliare la risposta è quasi impossibile, vogliono diventare e rimanere felici. Questo desiderio ha due facce, una meta positiva e una negativa: mira da un lato all'assenza di dolore e del dispiacere, dall'altro all'accoglimento di sentimenti intensi di piacere. Il programma del principio di piacere stabilisce lo scopo della vita ma è in conflitto tanto con il macrocosmo quanto con il microcosmo. Ed è così assolutamente irrealizzabile, tutti gli ordinamenti dell'universo si oppongono ad esso e potremmo dire che nel piano della creazione non è incluso l'intento che l'uomo sia "felice".
Qualsiasi perdurare della situazione agognata dal principio di piacere produce soltanto un moderato sentimento di benessere, siamo così fatti da poter godere intensamente del solo contrasto, ma soltanto assai poco di uno stato di cose in quanto tale. Le nostre possibilità di essere felici risultano quindi limitate già dalla nostra costituzione. Provare infelicità è assai meno difficile. La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali che sono il dolore e l'angoscia, dal mondo esterno che contro di noi può infierire con strapoteri spietati e infine dalle nostre relazioni con gli altri uomini.
Nessuna meraviglia se sotto la pressione di queste possibilità di soffrire gli uomini sogliono ridurre la loro pretesa di felicità cosi anche lo stesso principio di piacere si trasformò nel più modesto principio di realtà, tanto che ci sentiamo felici per il solo fatto di scappare all'infelicità.
La volontaria solitudine, il distanziarsi dagli altri sono il riparo più immediato contro il tormento che possono arrecarci le relazioni umane. la felicità conseguibile in al modo è ovviamente quella della quiete. C'è naturalmente un altro modo migliore: con l'aiuto della tecnica, guidata dalla scienza, passare in quanto membri della comunità umana ad aggredire la natura ed assoggettarla al volere umano. Si lavora allora con tutti per il bene di tutti. I metodi più interessanti di prevenzione del dolore sono però quelli che cercano d'influire sullo stesso organismo.
Il più rozzo ma anche il più efficace metodo per influire sull'organismo è quello chimico: l'intossicazione. Esistono sostanze estranee al corpo la cui presenza nel sangue e nei tessuti ci procura immediatamente sensazione piacevoli alterando in pari tempo le condizioni della nostra vita senziente al punto di renderci incapaci di accogliere moti spiacevoli. E' noto però che questa caratteristica degli inebrianti ne costituisce in pari tempo il pericolo e la dannosità. Per colpa loro in talune circostanze si sciupano inutilmente grandi quantità di energia che potrebbero venir utilizzate per il miglioramento della sorte umana.
Il mondo esterno è causa di grave sofferenza quando ci fa stentare, ricusa di saziare i nostri bisogni, agendo quindi su tali moti pulsionali possiamo sperare di liberarci di parte della sofferenza. Questo tipo di difesa dal dolore non riguarda più l'apparato sensitivo e cerca di conseguire il dominio delle fonti interne dei bisogni. In forma estrema ciò accade allorché le pulsioni vengono mortificate secondo quanto insegna la saggezza orientale e viene attuato nella pratica dello Yoga. Ciò comporta tuttavia anche un'innegabile riduzione della possibilità di godimento.
Un'altra tecnica per sottrarsi al dolore ricorre agli spostamenti della libido, che il nostro apparato psichico consente e in virtù della quale la funzione dell'apparato acquista tanta duttilità. Si tratta di scambiare le mete pulsionali, a ciò presta il suo aiuto la sublimazione delle pulsioni. Si riesce così ad accrescere in misura sufficiente il piacere tratto dalle fonti del lavoro psichico e intellettuale. Un soddisfacimento del genere, la gioia ad esempio provata dall'artista nel creare o del ricercatore nel risolvere problemi e scoprire il vero ha una qualità particolare. La debolezza di questo metodo sta però nel fatto che non è applicabile generalmente e che è accessibile solo a pochi. Presuppone particolari disposizioni o doti, che non tutti hanno e inoltre suole fallire di fronte alla sofferenza che è nel nostro corpo. 
In altri casi la connessione con la realtà è allentata, otteniamo il soddisfacimento attraverso illusioni riconosciute come tali senza lasciarci turbare nel godimento dal divario che le separa dalla realtà. La religione da cui queste illusioni scaturiscono è quella della vita fantastica. Il primo posto fra queste soddisfazioni fantastiche è occupato dal godimento delle opere d'arte.
Più energicamente opera un altro procedimento, esso scorge nella realtà l'unico nemico quello che è la fonte di ogni male, quello con cui è impossibile vivere, con cui occorre troncare i rapporti. L'eremita volta le spalle a questo mondo, non vuole avere nulla a che fare con esso.
Ma si può fare di più, volerlo trasformare, costruendone al suo posto un altro cui le caratteristiche più intollerabili risultino eliminate e sostituite da altre conformi ai nostri desideri. Chi in una rivolta disperata imbocca tale cammino verso la felicità non ottiene di regola nulla, la realtà è troppo vigorosa per lui. Diventa un pazzo che non trova perlopiù nessuno che lo aiuti a perseguire il suo delirio.  [Il disagio della civiltà, Freud, 1929]

martedì 11 dicembre 2012

La felicità della conversazione

Ebbene, per la Conversazione, le transazioni verbali, lo scambio di parole, hanno due regole molto importanti: la prima è considerata una regola costitutiva e si enuncia con la questione del "Come se ne esce?", la seconda è considerata normativa ed è l'orientamento degli interventi del Conversazionalista secondo il criterio della felicità.
Per la chiacchiera non si pone quella che abbiamo dato come regola costitutiva e cioè il "come se ne esce", mentre per la comunicazione, soprattutto quella in ambito terapeutico, si pone soprattutto la questione del cambiamento che dovrebbe avvenire nelle persone.
Nel Conversazionalismo, la questione del "come se ne esce?" tende a risolversi applicando il criterio della regola normativa della felicità. Bisogna infatti sottolineare che nel Conversazionalismo ci si appassiona al tentativo che consenta agli interlocutori di condividere una conversazione felice.
Mi rendo conto che l'uso di una parola come felice potrebbe rendere problematico il discorso ed il Lettore potrebbe lasciarsi prendere da una folla di domande: ma di quale felicità vai parlando? dici della felicità del tuo paziente, di quella tua, di quella vostra? e poi, cosa intendi per felicità? e ancora, sei proprio sicuro che di una conversazione si possa dire felice?
Cercando di approfondire il concetto, ci si imbatte nella doppiezza della lingua: "felice" si dice di una mossa, di una formulazione, di un'espressione, ma si dice anche di una persona. La felicità può essere linguistica, ma anche psicologica. Occupandoci di conversazione, ci troviamo sul crinale tra due mondi, il mondo delle parole e il mondo delle cose, il mondo linguistico e il mondo extralinguistico. Non è che non ci interessi la felicità come emozione che gli interlocutori possono sentire, ma ci concentriamo sulla felicità come qualità della conversazione: qualità legata alla possibilità di sciogliere un problema della conversazione, per cui prima questa qualità era assente o più bassa, poi risulta essere presente o più alta.
Il "come se ne esce?" si mostra quindi come quell'insieme di interventi che uno degli interlocutori (il Conversazionalista) fa per incrementare la qualità conversazionale della felicità o per farne abbassare l'infelicità.
"... Sono soprattutto interessato a un buon andamento, a un andamento felice della conversazione. Evidentemente secondo criteri soggettivi miei, non potendo certo sapere qual è, per il mio interlocutore del momento, una buona conversazione, una conversazione felice. Mi piace anche registrare le conversazioni, le mie conversazioni. Alcune conversazioni registrate, solitamente quelle che mi sono apparse nel loro snodarsi poco felici o decisamente infelici, le riascolto o le trascrivo. Le studio attentamente, ne analizzo le sequenze, cerco di scoprire se e dove e in che modo una sequenza infelice è stata propiziata da un mio contributo infelice. Nelle successive conversazioni, poi, il ricordo delle conversazioni studiate, o passate, mi aiuta, credo almeno a volte, a evitare i contributi che mi sono sembrati propiziatori di conversazioni infelici, per privilegiare i contributi che mi sono sembrati, in conversazioni analoghe precedenti, propiziatori di conversazioni felici" (Introduzione al conversazionalismo, Antonio Minvervino)