A partire dalla fondazione del logos di Aristotele, dal quale dire è significare, in regime di non contraddizione, nella morsa di un principio e d'una fine, uniti da una lunga catena di cause ed effetti, ad ogni parola segue un "qualche cosa", e solo uno, a cui però fa da parallelo un sentimento d'inquietudine, noto a chi cerca di dare un nome ad un "qualche cosa", per il carattere mortifero del parlare nel quale lentamente la definizione cede, tanto più è vicina tanto più appare vuota. Nella lettura che Jullien fa del taoismo viene proposto un altro modo di intendere il parlare, svincolato da questo "qualche cosa", che appare al limite dell'insensato se letto con mente occidentale. Un taoismo che sprona a parlare senza parlare, come sprona ad agire senza agire, a dar battaglia senza dar battaglia.
Nel suo testo "parlare senza parole" Jullien va alla ricerca di risorse perdute dal pensiero occidentale nell'uso della parola, voglio proporre due paragrafi che permettono di accedere alla penombra (il tao è indistinto e vago), di tali risorse. Il primo ci informa sul rischio della definizione, non tanto come qualcosa di mortifero per l'oggetto, ma che recidendolo dal flusso indistinto delle cose ci fa perdere la sua concretezza. Il secondo su un uso nuovo della parola, attraverso l'accesso a quanto rimane latente tra l'affermazione di due contrari, nella formula del "parlare senza parlare"
La definizione dice l'immobile, non l'effettivo.
"La definizione è passibile di farci perdere non tanto l'essenza intima, individuale e quindi ineffabile della cosa, quanto l'effettività attraverso cui qualcosa è in grado di verificarsi, di realizzarsi. Infatti secondo il pensatore taoista, vi è non-coincidenza, se non palese inversione o addirittura contraddizione, tra il segno caratteristico, o determinatezza, che la definizione riesce a cogliere, e ciò che a titolo processuale ha permesso il prodursi di tale determinazione. Sotto la determinatezza che la definizione enuncia, è lo sterile che viene colto, non il fecondo. La definizione esprime la capacità delle cose mentre essa si sta già disperdendo: ne esprime solamente l'uniforme, l'insipido e l'immobile. Con immobile non intendo semplicemente ciò che non si muove, piuttosto ciò che è morto e pietrificato, in quanto già abbandonato dalle sue capacità. Perciò questo immobile è anche ciò che viene esibito: la definizione esprime quanto viene esibito dalle cose, esprime ciò che di esse, funzionalmente, si rende visibile e le fa riconoscere e individuare. La definizione le cattura a valle, allo stadio in cui le loro potenzialità di prodursi, esibendosi e diventando completamente patente, si è già irrigidita e inaridita: i tratti caratteristici sono dei tratti induriti, già sclerotizzati; a essa sfugge il loro intenso "a monte", le recide dal loro emergere."
Leggendo queste righe me ne sono venute in mente altre sulla relazione tra filosofia e il suo tempo, la nottola di Minerva, descritta da Hegel:
"Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev'essere fatto il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell'e fatta. Ciò che il concetto insegna, la storia mostra appunto che è necessario: che, cioè, prima l'ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, colto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo." G.W.F. Hegel 1820
Parole che non uccidono la cosa, ma che la colgono solo quando è ferma, oppure che colgono solo quanto della cosa non è utilizzabile, è snaturato. Jullien continua:
Leggendo queste righe me ne sono venute in mente altre sulla relazione tra filosofia e il suo tempo, la nottola di Minerva, descritta da Hegel:
"Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev'essere fatto il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell'e fatta. Ciò che il concetto insegna, la storia mostra appunto che è necessario: che, cioè, prima l'ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, colto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo." G.W.F. Hegel 1820
Parole che non uccidono la cosa, ma che la colgono solo quando è ferma, oppure che colgono solo quanto della cosa non è utilizzabile, è snaturato. Jullien continua:
"Prendiamo un uomo "pio"; qualcuno che gli altri chiamano pio, che si crede pio, che in ogni modo pretende di esser pio: già immaginiamo che la sua sarà una pietà spenta, piatta, gretta, meschina. La sua virtù non è ipocrita, ma povera: per il semplice fatto che si lascia identificare da segni tangibili essa perde lo slancio che, dispiegato senza oggetto né progetto, dovrebbe effettivamente costituire il suo principale pregio; quello slancio che per sua natura, è però troppo intenso e indiviso, troppo diffuso e allo stesso tempo disinvolto perché lo si possa isolare e, di conseguenza, identificare. Osservate d'altra parte come le virgolette prudentemente aggiunte, persino nell'oralità "i piccoli segni mimati con le dita", siano un prezioso avvertimento. Sono indice di una diffidenza. Graffiano, a suo passaggio, ciò che è troppo agevolmente scivola nella parola, ciò che è troppo accettato, troppo facilmente identificato per non risultare sospetto: questa determinatezza è troppo marcata e generalmente accettata perché non nasca il sospetto che si sia un po' svuotata dal suo senso. Attraverso le virgolette io denuncio l'eccessiva esplicitazione formale che troppo agevolmente coincide con la propria definizione e così la metto nuovamente a distanza. Saranno sufficienti a far intuire le mie riserve, io stesso non sono più sicuro di farmi completamente carico di un enunciato che è troppo conosciuto, troppo ben collocato all'interno dei termini della definizione e come tale etichettato per non esigere il proprio rovesciamento."
Ciò che agli occhi del pensatore taoista penalizza la definizione non è quindi il fatto che le cose siano insufficientemente stabili e le proprietà che le qualificano siano in divenire, ma piuttosto che la definizione, recidendo queste proprietà dal loro divenire e ripiegandole su loro stesse non lasci più apparire la qualità delle cose nel proprio emergere. Cosa accadrebbe se l'uomo di prima invece d'esser "pio" fosse "estensionista"?
Jullien continua:
Entrare nel pensiero taoista significa esattamente riaprire la possibilità di un "tra" i contrari. All'interno dell'enunciato una contraddizione non distrugge i contrari, e neppure li concilia, bensì attraverso il proprio negare, essa libera ciò che il proprio affermare reca in sé di limitativo e vincolante, di sterile e forzato. Nel pensiero taoista il parlare si intende come parlare senza parlare. Può essere più facile intenderlo con un altra contraddizione: agire senza agire, che non significa che non agisco, ma neanche che agisco, poiché ogni agire conduce generalmente all'attivismo. "Non agisco", nel senso in cui mi guado bene dall'agire allo stadio dell'a valle, quello del tangibile e dell'immobile, allo stadio delle azioni concordate e puntuali che, inserendosi in situazioni anche solo po' irrigidite, necessariamente suscitano la reticenza degli altri quanto la resistenza dei fatti. E tuttavia "agisco", nel senso che opero a monte, più vicino alla sorgente dell'effettività, allo stadio in cui la configurazione delle cose è ancora duttile e disponibile, cioè in grado di accogliere il mio intervento senza una rigidità sufficiente a contrastarlo. Non oso agire poiché evito di affrontare il corso delle cose allo stadio in cui, irrigidito, esso mi richiede in cambio di gravare con la mia volontà per forzare le condizioni e imporre loro il mio desiderio e la mia intenzione. Grande dispendio e poco effetto. Di contro agisco allo stadio del "non c'è" vale a dire allo stadio in cui, dato che nulla si è ancora costretto a distaccarsi e stagliarsi come azione individuale, ma può confondersi con la psicosessualità delle cose e unirsi alla sua propensione: quello stadio in cui non sono ancora immobilizzato dalle determinazioni, lo stadio in cui le definizioni vanno ad arenarsi, e posso operare senza problemi, in modo facile, in accordo non osando agire "favorisco quanto viene da sé"
Una formulazione che sembra essere una strategia d'azione. Ne è una riprova il fatto che essa è valida in ambito militare (il trattato del Laozi si presta a numerosi sviluppi nell'ambito della strategia bellica). Nella gestione del conflitto e nella condotta delle operazioni "avanzo" in modo più sottile di quanto non farei pretendendo semplicemente di guadagnare terreno: senza quindi aver bisogno di forzare eroicamente le linee avversarie, di presidiare un numero sempre maggiore di postazioni - sempre dispendiosi da proteggere - e senza bisogno di distruggere il nemico con azioni clamorose e assalti ostinati. La mia avanzata risulta tanto più reale per il fatto che non sono tenuto a concretizzarla in modo localizzato e per il fatto che essa consiste anzitutto nella progressiva erosione, fisica e morale, del capitale di resistenza del mio avversario. Poiché non si lascia relegare, e quindi ridurre, a delle posizione determinate, la superiorità che accumulo dalla mia parte risulta tanto meno contrastabile.
Agire senza agire lascia così trasparire al centro stesso della contraddizione un "tra" più sottile: tra passività e bellicismo, tra ciò che da un lato, sarebbe pura debolezza e, dall'altro, un inutile rischio si afferma che l'arte della strategia consiste nell'accogliere l'avversario e non nell'attaccarlo, nell'indurlo allo sfinimento astenendosi da ogni aggressività (e vinse il generale inverno). E' necessario infatti trattenersi dal fare la guerra, e ancor di più dallo sfidare l'avversario, per condurla in maniera opportuna. Infatti l'avversario che si appresta a combattere al livello dei segni tangibili si lancia alla carica con pesantezza e affonda: per il semplice fatto che non riesce a individuarmi come bersaglio egli vede il proprio potenziale bellico consumarsi invano e, impacciato dalle postazioni che assunto sul terreno di guerra, e che ora lo paralizzano, si trova ridotto all'inerzia e si lascia sopraffare. Al contrario, non arenandomi in alcuna posizione fissa, sarò incline a rimanere all'erta: l'aggressività dell'avversario sarà di per sé sufficiente a mantene viva la mia reattività e io riuscirò a distruggerlo senza neanche doverlo affrontare.
E quindi similmente posso dire "parlare senza parlare". Non rinuncio a parlare, ma libero subito la mia parola da ciò che essa ha di limitativo, legato al senso, che è necessariamente uno, e perciò di sterile e vincolante: io libero la mia parola da ciò che la costringe a dire, così come ho liberato il mio agire da quanto esso avevo di attivo. Questa parola senza parlare, che non possiede più nulla di individuato o attribuito, che non è più sottomessa alla determinazione di un senso e non verte più su un oggetto, aspira invece a un'intesa implicita che diviene immediata, come un flusso incitativo da un interiorità all'altra, che si dispensa dal meticoloso strumentario delle parole e lascia lontano dietro di sé qualsiasi contenuto astratto, visto come rigido e sclerotizzato. Quanto l'intenzione viene raggiunta, dimenticate la parola, poiché la parola ha come unica ragion d'essere quella di servire a catturare questa intenzione o tensione interiore: l'unica cosa che conta e l'al-di- à della parola. La pura strumentalità della parola viene poi definitivamente accantonata: infatti "una volta che il pesce è stato catturato si dimentica la nassa", "una volta che la lepre viene presa, di dimentica la trappola".
(Continua: parola e dia-logo) [Parlare senza parole, Francois Jullien, 2006]
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