Per l'autore la psicopatologia
schizofrenica dipende da un sostanziale disturbo della capacità di
Simbolizzazione, che impedisce la creazione del simbolo del
Sé. Tale assenza, a sua volta, rende impossibile una relazione del
Sé con l'oggetto e con se stesso sufficientemente stabile da dare un
senso di continuità, ma sufficientemente libera da non portare
l'individuo a sentirsi alla mercé dell'altro. Questo porta i malati
ad essere vagamente consci delle sensazioni e delle rappresentazioni
che sono all'opera nella loro soggettività, senza per questo
arrivare a comprenderle, perché manca loro la capacità di
oggettivarle, di collocarsi di fronte ad esse, il che rende
l'introspezione un'esperienza estremamente penosa, consistente nel
non poter creare immagini di sé: si hanno così delle sensazioni, ma
è impossibile osservarsi e comprendersi.
Prima di proseguire
mi è stato utile riprendere le definizioni di segno e di simbolo. Il
segno viene inteso
come una correlazione diretta fra significante e significato, dove il
primo sta per forma visiva ed espressiva, ed il secondo per
contenuto, un “qualcosa d'altro” a cui il primo rimanda. Mentre
nei segni il “qualcos’altro” è un contenuto immediato e
preciso, nel simbolo le possibilità si ampliano. Il simbolo
non comprende solo una associazione di contenuti, ma un insieme di
emozioni che partono dal vissuto della persona e che possono avere un
valore universale: la dove il segno definisce, il simbolo amplia.
Se la capacità di
simbolizzazione è perduta con essa scompare la possibilità di
creare un simbolo del Sé, che rappresenta la primaria
esperienza di simbolo, qualcosa che se pur instabile, nella sua
polisemia e magmaticità, perdura attraverso lo scorrere del tempo,
gli incontri e le situazioni dando una esperienza di continuità
dell'esistenza. Il terrore sperimentato dal soggetto schizofrenico
nel momento in cui si affaccia a tale polisemia e magmaticità, lo
porta all'ipersimbolismo nel quale tutto sembrerebbe simbolo,
un gesto di qualcuno è una accusa, un incontro per strada è un
invito, un colore intravisto nella folla è una conferma, ma che in
realtà è un segno concreto e diretto, senza alcuna convenzionalità
e interpretabilità. Da una realtà polisemica, si arriva ad una
realtà spaccata in una infinità di segni che rimandano ad un unico
significato persecutorio ed estatico per il soggetto.
Contrapposta alla
Simbolizzazione vi è per Benedetti la Scissione, dove non vi
è coesistenza di significati ma separazione: una separazione
inconciliabile tra pulsioni e dettami morali e una separazione
assoluta tra lo stato di comunione con l'altro e il ritiro autistico.
La scissione più catastrofica avviene tra Sé Simbiotico e Sé
separato, tale scissione implica la coesistenza di due stati
assoluti e contraddittori, alternando uno stato di fusione con il
mondo, ad uno di ritiro in sé. Tale scissione porta all'oscillazione
tra la simbiosi “io sono l'universo, il sole, io sono te”
all'autismo “non esiste niente fuori di me, ogni cosa è
inesistente”.
Questo porta i
pazienti ad essere contemporaneamente fusi e separati nel loro
rapporto con il mondo e tale situazione viene sostenuta dal
deficit di integrazione del paziente schizofrenico che si fa più
forte ogni volta che la capacità di far coesistere le differenze
viene messa alla prova. Il paziente messo di fronte all'angosciante
incapacità di rimanere in relazione all'altro se non a costo di una
profonda confusione tra se stesso e l'altro e il terrore che l'altro
possa entrare in lui, reagisce così con la chiusura in un vissuto di
non esistenza e alla strutturazione del delirio che garantisce quella
permanenza e invarianza di cui sente dolorosamente bisogno. Ed ecco
che il paziente reagisce collegando a sé tutto ciò che lo
circonda,(delirio di riferimento), oppure cercando un'identità
razionalizzandone l'assenza (“io non sono nessuno, nulla
esiste”) oppure dilatandola (“io sono dio”).
Tale perdita di
realtà è compensata dalla ricostruzione attraverso neomorfismi,
neologismi, sistematizzati nelle costruzioni deliranti. Il delirio
rappresenta il “tentativo di nascondere ciò che non è
simbolizzato, ciò che è stato scisso ma che, pur non
rappresentabile, non può essere eliminato in quanto è essenziale.”
Il Sé che si va a
costruire in questo modo, un Sé delirante, perseguitato da una
realtà che diventa riflesso di se stesso, è pur sempre l'unica
forma di esistenza per il paziente schizofrenico, ecco perché
l'interpretazione non può che essere rifiutata in quanto
rischia di privarlo dell'unico Sé che è riuscito a costruirsi.
E' necessario che
prima il paziente abbia potuto procurarsene un altro, fondato sulla
dualità dello scambio affettivo, attraverso la creazione di simboli
a partire dalle immagini del paziente.
Benedetti propone
quindi l'immersione nel mondo delirante del paziente, accettando il
paziente insieme con quello che in lui può esistere soltanto in
forma allucinatoria. Considera le allucinazioni e deliri un
protosimbolo, punto di partenza di una simbolizzazione. Per
protosimbolo Benedetti intende il delirio e l'allucinazione,
che per il paziente non può ancora essere un simbolo, ma solo un
segno che lo rinvia alla realtà ultima della cosa. Al tempo stesso
per il terapeuta il protosimbolo è un punto di partenza per arrivare
da qualcosa che chiude, a qualcosa che crea.
La positivizzazione
dell'esperienza psicotica è intesa come un riconoscimento delle
potenzialità espressive e comunicative della psicosi, dove in un
rapporto duale, il terapeuta prende dentro di sé il paziente e i
suoi protosimboli restituendo un'immagine integrata e, a partire da
una fantasia comune, contribuisce allo sviluppo di un processo di
simbolizzazione. Al contrario dell'interpretazione, che descrive al
paziente nevrotico, capace di riflettere su di Sé, in che modo
l'ombra del passato influenza il suo presente, nella positivizzazione
l'analista entra nello scenario del paziente per trasformarglielo.
La positivizzazione
poggia sull'identificazione parziale, che sottintende un
movimento che porta il terapeuta ad entrare nella pseudologica
dell'altro, a vedere il mondo con gli occhi dell'altro, a intenderlo
come l'altro lo intende e rispondergli con le proprie fantasie. Non è
una identificazione totale, si tratterebbe di una folie à deux, è
un entrare nella psicosi, rimanendone fuori. Benedetti la distingue
dall'empatia, che viene intesa come la capacità di comprendere il
paziente dall'interno. Viceversa l'identificazione parziale è
qualcosa di più profondo, perché il terapeuta è nella situazione
del paziente, è nel luogo del paziente, ha a che fare più con il
versante della compassione, del “patire con”, piuttosto
che “sentire dentro”. Poggia su un sentimento di simpatia,
devozione e affetto, sulla parola Liebe che l'autore utilizza nei
suoi testi, che potrebbe essere tradotta erroneamente con amore ma
che in tedesco ha un significato più ampio che in italiano e che
designa per Benedetti quella profonda “compassione” (cum-patire =
soffrire con) che riconosce il paziente e nello stesso tempo ne fa un
compagno di viaggio esistenziale.
Credo che per
Benedetti sia proprio questa esperienza dell'essere con a fare la
differenza nell'esperienza del soggetto schizofrenico, al punto di
portarlo ad un punto di contatto con l'altro. Benedetti infatti
considerava la psicopatologia individuale, imprescindibile dalla
psicopatologia collettiva, della società e della famiglia, che
segregano nell'individuo, quel fardello incomunicabile di profonde
contraddizioni che ci caratterizzano (come non emozionarsi tra le
pagine 24-25-26?).
“Nell'individuo
si incontrano le contraddizioni di una società che pretende di
essere sana nelle sue atroci guerre, persecuzioni, corruzioni,
terrorismi, nascosti dietro il mantello della giustizia, della
libertà, della solidarietà e di una famiglia che incorpora senza
eccezione tradizioni e comportamenti disumani, in qualsiasi cultura e
società.”
Per Benedetti, certi
individui, si fanno portatori involontari, il più delle volte sotto
la spinta della coercizione, di tale fardello e tali contraddizioni.
Ecco, per l'autore, nel movimento di identificazione parziale,
nell'accettazione di tenere dentro di Sé quei sentimenti
dolorosamente impensabili rimanendone però differenziati, c'è la
possibilità di dare un incontro a questi individui.
Alla base della
possibilità di positivizzazione dell'esperienza psicotica e
dell'identificazione parziale, vi è la capacità di riconoscere la
profonda attività creativa dell'inconscio e della psicopatologia
psicotica. Benedetti diceva “io non credo che ogni paziente sia
un artista, penso tuttavia che il processo schizofrenico, che è
naturalmente devastante per il mondo del paziente, stimoli, in
alcuni, anche la creatività, una creatività perlopiù misconosciuta
dalle persone normali e riscoperta solo da chi si impegna in una
relazione profonda con il paziente.[...] se ci soffermiamo solo un
po' ad ascoltare ci accorgiamo che una delle reazioni al processo
patologico consiste nel creare delle difese che possono avere accesso
ad una dimensione creativa. […] La scoperta e la stimolazione di
questo nucleo di creatività permettono al
paziente di creare simboli.”
Il processo di
positivizzazione non è intenzionale, ma è una risposta
dell'inconscio del terapeuta messo a disposizione del paziente, ed è
forse a questa messa ad disposizione che il paziente risponde
attraverso il fenomeno della “dualizzazione” in un
passaggio tra psicopatologia regressiva a psicopatologia
progressiva, dove la malattia, il sintomo e il delirio non sono
più orientati a distruggere la realtà ma a costruire, non più a
separare ma a dualizzare. La psicopatologia progressiva è una
psicopatologia la cui funzione è di avere delle intenzioni
comunicative, contrapposta alla psicopatologia regressiva che è
chiusura alla comunicazione e alla realtà.
Questo credo sia
stato il punto più emozionante della lettura del testo di Benedetti,
la profonda umanità dell'autore lo ha portato a comprendere che, se
non ho frainteso il suo messaggio, l'unico modo di avvicinare questi
pazienti fosse la profonda accettazione dei loro processi mentali.
Processi mentali che li portavano a delirare e ad allucinare ma che
al tempo stesso erano il nucleo primo della loro individualità verso
la quale l'autore ha avuto sempre una grande umiltà e un grande
rispetto.
Nella psicopatologia
progressiva i fenomeni psicopatologici che tagliavano fuori dal
rapporto con l'altro diventano vettori di dualità: il transitivismo
(un fenomeno psicopatologico in cui il paziente proietta sul mondo
parti del suo sé) diventa fenomeno di comunicazione e la
personificazione (introiezione della realtà nel mondo del
paziente), diventa un fenomeno interpersonale.
Si va a creare un
soggetto transizionale, una istanza terza, costituita da
elementi proiettivi e introiettivi del paziente e del terapeuta: è
una possibilità che appartiene al paziente ma che non può
sussistere a prescindere dal terapeuta. E' una zona di esistenza
intersoggettiva, dove si contribuisce allo sviluppo di un processo di
simbolizzazione e quindi all'elaborazione del simbolo del Sé.
Tale
soggetto transizionale può tramite “un'ispirazione”
emergere dall'inconscio, non è una immagine ricercata, che
rappresenta il più delle volte un tentativo prematuro di difesa
rispetto alle angosce del paziente, ma una libera associazione che si
costruisce sul materiale delirante portato dal paziente. Ed ecco che
all'immagine di Cristo, masturbato da dei bambini, segue nella
fantasia del terapeuta, l'immagine di un quadro, in cui Cristo
abbraccia i bambini (pag68-69). La decisione del terapeuta è nel
condividere o meno tale immagini, ma non è un atto produttivo
conscio. La conferma o meno che i due inconsci abbiano intessuto una
trama comune sta nella risposta del paziente, se include, o meno, il
nuovo materiale all'interno della discorso delirante. Nella lettura
del testo, non ho potuto fare a meno di chiedermi quanto queste forme
di associazione fossero lontane dal concetto di rêverie.
Ricordo
che al seminario di Roussillon, al quale abbiamo da poco partecipato,
la terapeuta, Anna Ferruta, rispondeva al termine avulso, usato dalla
paziente per rappresentare il suo vissuto familiare, con l'immagine
dell'azulejo, una tipica mattonella d'arte portoghese, che
rappresentava in un medesimo simbolo sia il legame che la
separazione. Tale mattonella infatti rappresenta un disegno
individuale e al tempo stesso collettivo all'interno del murales nel
quale viene collocata. L'immagine iniziale, una separazione, è stata
restituita in una forma arricchita dal transito nell'inconscio
dell'analista andando a formulare un simbolo dell'individualità nel
collettivo, in risposta di un conflitto questa volta ad un livello
non specificatamente psicotico di personalità.
Il soggetto
transizionale può essere un nuovo simbolo creato all'interno della
relazione terapeutica, non tutto del paziente e non tutto del
terapeuta, frutto anche di un sogno gemellare, una diade di
sogni che si verificano nel terapeuta e nel paziente nel corso di una
stessa notte e in cui terapeuta e paziente assumono ruoli diversi e
coordinati, uno rivolto verso la vita l'altro rivolto verso la morte.
Tali soggetti transizionali, ad esempio un albero possente e forte
(pp112/113), che compare in un sogno del terapeuta, contrapposto ad
un castello circondato dal deserto sognato dal paziente, possono
costituire per il paziente psicotico oggetto di contemplazione, dal
quale recuperare un senso di serenità e benessere. (Per una
descrizione puntuale del processo di positivizzazione attraverso il
sogno gemellare che implica introiezione, identificazione parziale,
creazione soggetto transizionale / comunicazione leggere pag.
176/177)
Ultimo strumento di
positivizzazione dell'esperienza psicotica è il disegno speculare
progressivo che si basa su un dialogo in immagini disegnate con
il paziente che propone continuamente l'integrazione tra Sé
simbiotico e Sé separato: quando le immagini sono sovrapposte
prevale la relazione simbiotica, quando i fogli e i disegni si
dividono nell'osservazione c'è il confronto con la dimensione
separativa della relazione. (Da pag. 186 a 191 c'è una descrizione
dettagliata del metodo.)