lunedì 2 novembre 2015

Che cosa è la felicità?

Noi non sappiamo che cosa siano felicità o infelicità in senso assoluto. Tutto è promiscuo in questa nostra vita, ove non è dato provare alcun sentimento completamente puro, non è dato restare per due momenti di seguito nello stesso stato, ché gli stati dell'animo, come le modificazioni del corpo fluiscono senza sosta. Il più felice è colui che meno patisce; il più misero è colui che gioisce di meno. Ma sempre i patimenti sopravanzano le gioie: ecco la differenza a tutti comune. La felicità dell'uomo quaggiù è dunque soltanto uno stato negativo, determinato dalla minore quantità dei mali sofferti. Ogni sentimento di pena è inseparabile dal desiderio di liberarsene; ogni idea di piacere è inseparabile dal desiderio di goderne; ma il desiderio presuppone sempre una privazione e tutte le privazioni che si avvertono sono penose. E' dunque nella sproporzione tra i desideri e le facoltà di soddisfarli che risiede la nostra miseria. Un essere sensibile, che avesse facoltà pari ai desideri, sarebbe assolutamente felice. In che cosa consiste la saggezza umana, ossia la strada della vera felicità? Non certo nel diminuire i nostri desideri, poiché, se fossero inferiori a ciò che possiamo, una parte delle nostre facoltà resterebbe inattiva e non godremmo di tutto il nostro essere. Ma neppure consiste nell'ampliare le nostre facoltà, ché  se i nostri desideri crescessero contemporaneamente in maggior misura, saremmo senza dubbio più infelici. Occorre invece diminuire l'eccesso dei desideri rispetto alla facoltà e ridurre a perfetta eguaglianza il potere e la volontà. Soltanto allora, trovandosi tutte le forze in azione sarà assicurata la pace dell'anima e l'uomo si sentirà in armonia. [Rousseau, Emilio 1762]

giovedì 9 luglio 2015

L'uomo in rivolta

L'uomo in rivolta dice ad un tempo di sì e di no. Egli afferma, insieme alla frontiera, tutto ciò che avverte e vuol preservare al di qua della frontiera. Dimostra che c'è in lui qualche cosa per cui "vale la pena di...", qualche cosa che richiede attenzione. Oppone all'ordine che l'opprime una specie di diritto a non essere oppresso al di là di quanto egli possa ammettere. Insieme alla ripulsa rispetto all'intruso, esiste in ogni rivolta un'adesione intera e istantanea dell'uomo a una certa parte di sé. Per quanto confusamente, dal moto di rivolta nasce una presa di coscienza: la percezione, ad un tratto sfolgorante, che c'è nell'uomo qualcosa con cui l'uomo può identificarsi, sia pure temporaneamente. Questa identificazione, fin qui, non era realmente sentita. Tutte le concussioni anteriori al moto d'insurrezione, lo schiavo le sopportava. Un moto di rivolta non è nella sua essenza un moto egoista, e non nasce soltanto e necessariamente nell'oppresso, ma può, nascere anche dallo spettacolo dell'oppressione di cui è vittima un altro. La rivolta si distanzia dall'intossicazione del risentimento, non porta alla chiusura e la stagnazione, ma ad un sentimento attivo d'essere che aiuta a traboccare. La rivolta è un sentimento furioso, distante dal realismo del risentimento che punta ad essere ciò che non si è, l'uomo in rivolta rifiuta di lasciarsi toccare in quello che in se stesso trova più importante. [Camus, L'uomo in rivolta]

lunedì 20 aprile 2015

La perdita della realtà: nevrosi, psicosi e feticismo.

In “Nevrosi e Psicosi” (1923) Freud le aveva distinte in base alla direzione del movimento dell'Io, nel primo caso è un imporsi sull'Es e a farla da padrone sono gli accadimento reali, nel secondo caso è un ritrarsi dalla realtà sotto il dominio dei moti pulsionali.
In particolar modo affermava come nelle nevrosi di traslazione il sintomo (rappresentanza sostitutiva che si impone all’Io a mezzo di compromesso) si sviluppa a partire dal fallimento della rimozione di un impulso inconscio che l'Io non è né in grado di favorire né di reprimere. La lotta evitata contro l’impulso negato è così portata avanti contro il sintomo che minaccia il sentimento di unità dell’Io. Freud afferma come l’Io in questo moto abbia seguito i dettami del Super-Io che a sua volta si è piegato agli influssi del mondo reale. In particolar modo vengono rintracciate due forme di influenza del reale sull’Io, il primo è rappresentato dalle percezioni attuali che possono rinnovarsi continuamente, il secondo da quel patrimonio mnestico di percezioni precedenti che vanno a costituire quello che viene definito “mondo interiore”.

Freud identifica una similitudine tra i processi che portano alla psicosi e quelli che portano al sogno, in particolar modo il crearsi un nuovo mondo esterno e il venir meno dell'investimento del mondo interno a favore dei desideri dell’Es. In tutto questo il delirio viene descritto come “una specie di rammendo, laddove in origine si si era prodotta una lacerazione nel rapporto con l’Io e il mondo esterno”. Ma sia nella psicosi che nella nevrosi all'origine della patologia viene rintracciata la frustrazione di uno degli invincibili desideri della vita infantile. Tale frustrazione può derivare dall'esterno o dall’istanza interna che si è assunta l’onere di rappresentare le pretese della realtà: il super-io. Tale istanza tende ad unificare in sé influssi provenienti dall’Es e impulsi provenienti dal mondo esterno andando a rappresentare quella sorta di modello ideale al quale l’Io tende con tutte le sue forze.
Freud in queste pagine afferma dell’esistenza di un terzo tipo di conflitto, tra Io e Super-Io che rintraccia alla base della melanconia o in generale delle “psiconevrosi narcisistiche”.

In “La perdita della realtà nella psicosi e nella nevrosi” (1924) ciò che vuole approfondire, partendo dalla constatazione che in entrambe le condizioni il rapporto con la realtà viene compromesso, è l'effetto sulla rappresentazione della realtà da parte del soggetto in un caso e nell'altro.
Nella nevrosi tale rapporto viene mantenuto integro nella prima parte del processo, quando questo, non ancora patologico, reprime un moto pulsionale. La compromissione con la realtà avviene invece quando si avviano quei processi che mirano a soddisfare, almeno in parte tale moto pulsionale. Il fallimento della rimozione che ne consegue porta quindi a quell'allentamento del rapporto con la realtà che rimane però focalizzato su quel frammento della realtà adiacente alle richieste della rimozione pulsionale effettuata.

Freud riprende l'esempio dell'analisi della Signorina Elisabeth von R. che abbiamo trattato qualche seminario fa. In questo caso a seguito, alla morte della sorella della rimozione del desiderio di sposarsi con il cognato alla morte della sorella, Elisabeth aveva prodotto un'amnesia sulla scena e conseguentemente prodotto i sintomi di natura isterica.

Nel processo di formazione della psicosi troviamo anche qui due stadi, nel primo l'Io cerca di svincolarsi dalla realtà, ma anche nel secondo perpetua questo tentativo attraverso la creazione di una realtà nuova e diversa priva degli impedimenti della realtà che era stata abbandonata.

Nevrosi e psicosi condividono quindi entrambe espressione del tentativo di ribellione dell'Es come anche della sua incapacità di adattarsi alla realtà (necessità), ciò che le distingue è la prima fase della loro genesi che nella nevrosi porta ad un allentamento del rapporto con essa attraverso la fuga, nella psicosi ad una ricostruzione di un realtà nuova.
Freud considera come sano un comportamento intermedio, che non si limita alla fuga, ma porti alla modificazione della realtà, ma non attraverso il delirio e l'allucinazione, ma attraverso l'azione e il comportamento (passando da una modificazione autoplastica, interna ad alloplastica, ossia manipolazione dell'esterno).




Freud passa poi alla descrizione dei processi attraverso i quali si ricostruisce la realtà nella psicosi, spiegando come il rimodellamento della realtà riguarda le tracce mnestiche, le rappresentazioni e le valutazioni sulla realtà stessa che la psicosi si procura attraverso paramnesie, formazioni deliranti e allucinazioni in modo tale da far corrispondere la realtà esterna con quella che il soggetto si è creato. Tale processo però non è privo di angoscia derivante dal fatto che questo avviene contro delle forze che gli si oppongono strenuamente. Questo avviene per processi similari a quelli nevrotici, lì dove il moto pulsionale trabocca e le difese vacillano, generando sofferenza, qui parte della realtà che è stata rigettata torna a riproporsi nella vita psichica del soggetto.












Avviandosi alla conclusione Freud individua ulteriori similitudini tra nevrosi e psicosi. In particolar modo che è il secondo stadio a fallire non riuscendo la pulsione a trovare un sostituto vero e proprio. Ma nella psicosi entrambi i moti sono patologici, nella nevrosi il primo non lo è, anzi, essendo qualcosa di comune nella vita quotidiana.

Le differenze riscontrate secondo Freud derivano da una disparità a livello topico, ossia dal rinunciare in un conflitto all'attaccamento al mondo reale o alla propria dipendenza dall'Es, questo porta al fatto che nella nevrosi ci si accontenta di schivare la realtà. Un punto di unione è rappresentato invece dalla fantasia attraverso la quale il soggetto può vivere in un mondo più consono ai propri desideri. Questo mondo parallelo, solo parzialmente accessibile all'io e distinto dal mondo realtà con l'instaurarsi del principio di realtà rappresenta la fucina attraverso la quale il soggetto nevrotico può trovare soddisfazioni ai suoi desideri.
Nella psicosi tale mondo svolge il medesimo ruolo rappresentando lo scrigno dal quale viene attinto il materiale per il rimodellamento radicale della realtà, nella nevrosi invece, questo materiale si appoggia alla realtà, tranne che per quel segmento dal quale si vuole difendere, conferendo ad essa un particolare significato o senso segreto o simbolico.


Differenze
Nevrosi
Psicosi
Rapporto Io /Es/Realtà
Realtà>Io>Es
 Es>Io>Realtà
L'effetto sulla rappresentazione della realtà
Mantenuto integro nella prima parte del processo
Tentativo di svincolarsi dalla realtà in entrambe le fasi del processo.
Manipolazione della realtà
allentamento del rapporto con essa attraverso la fuga
Ricostruzione realtà  attraverso deliri e allucinazioni.
Angoscia
Causata dal ritorno dell'Es
Causata dall'imporsi della realtà
Processi patologici
Solo nel secondo stadio
In entrambi gli stati
Somiglianze
Sono entrambe un'espressione del tentativo di ribellione dell'Es.
Sono entrambe derivanti dall'incapacità dell'Es di adattarsi alla realtà.
L'angoscia deriva dal fallimento del sistema difensivo.
La fantasia è l'origine del materiale per la soddifazione del desiderio.


Freud anche nel suo testo Feticismo (1927) affronta la questione del rapporto con la realtà. Con questo termine si riferisce alla condizione di certe persone "la cui scelta oggettuale era dominata da un feticcio, [...] riconosciuto da coloro che ne dipendono come qualcosa di anomalo, [...] per il quale si dichiarano pienamente soddisfatte o addirittura mostrano apprezzare le facilitazioni che esso procura alla loro vita amorosa." In particolare per Freud il feticcio è il sostituto del pene, e in particolare un pene che nell'infanzia ha avuto una grande importanza, al quale nella normalità vi si rinuncia mentre in questo caso viene salvaguardato: il pene della donna (madre).
Nel feticismo vi è il rifiuto di un dato sensoriale, ossia che la donna non ha un pene, questo perché è' stato impossibile per il soggetto feticista accettare tale percezione, associata ad una possibilità intollerabile, quella della possibile evirazione della donna. Tale possibilità è insostenibile per il soggetto feticista in quanto comporta che lui stesso possa incorrere nello medesimo destino. 
Alla base di tale misconoscimento Freud rintraccia nuovamente la rimozione, intervenuta nel conflitto tra l'importanza della percezione sensoriale indesiderata e la forza del controdesiderio. Tra queste due spinte viene raggiunto un compromesso possibile solo grazie alle leggi inconsce dominate dai processi primari. Qualcosa è stato eletto al suo posto, ereditandone l'interesse, ulteriormente reso straordinario perché intriso dell'orrore per l'evirazione, a questo risultato rimane parallelo lo “stigma indelebile” dell'avvenuta rimozione: un certo senso di estraneità per i genitali femminili che ai feticisti non manca mai. Il feticcio, così ottenuto, rappresenta il trionfo contro la minaccia dell'evirazione ed evita al feticista di divenire omosessuale attribuendo una caratteristica alla donna che la rende tollerabile come oggetto sessuale.

L'instaurarsi del feticcio sembra legato a processi similari l'amnesia traumatica: l'ultima impressione prima della scoperta traumatica (che la donna è priva di pene) è quella che verrà eletta a feticcio, ecco l'elezione di piedi e scarpe, spesso l'ultima immagine impressa nella memoria prima della scoperta del genitale femminile, così come i capi di biancheria intima che fissano l'attimo della spoliazione, l'ultimo in cui si poteva credere ancora alla donna fallica.

Il feticismo inizialmente appariva a Freud come una disconferma di quanto scritto precedentemente sulla perdita della realtà nella psicosi e nella nevrosi.  Infatti anche in questo caso un aspetto significativo della realtà viene rinnegato dall'io (l'evirazione della donna), ma non si sviluppa una psicosi. Questo avviene perché solo una corrente della vita psichica del soggetto non accetta il dato reale: un'altra se ne rende conto perfettamente, manifestando la coesistenza di un atteggiamento consono alla realtà e uno consono al desiderio. Tale scissione scrive Freud si evolve in una nevrosi ossessiva in cui l'esistenza del soggetto oscilla tra questi due atteggiamenti. Nella psicosi invece, tale coesistenza non è rintracciabile, e l'atteggiamento consono alla realtà è perduto.

Trasversale alla discussione sul rapporto tra nevrosi, psicosi, feticismo e realtà, vi è il meccanismo di scissione dell'io (Ichspaltung) che viene introdotto sia in Nevrosi e psicosi (1923) che in Feticismo (1927), delineato con precisione in: la scissione dell'io nel processo di difesa (1938) e ripreso nelle ultime pagine del Compendio di psicoanalisi (1938).

Tale fenomeno, come abbiamo visto poco prima, è conseguente un conflitto fra pretese pulsionali e obiezione della realtà, tra desiderio e possibilità di attuarlo. Al soggetto si apre così la strada di una repressione del desiderio, e in caso di ritorno del rimosso una soddisfazione a mezzo di compromesso, oppure attraverso la repressione della realtà, a prezzo del delirio e delle allucinazioni per ricucire lo strappo avvenuto.
Una terza via si apre però al soggetto: la possibilità che, con l'aiuto di determinati meccanismi, possa coesistere un rifiuto della realtà, non lasciandosi proibire nulla, con la sopravvivenza però del pericolo della realtà, che assunto su di sè, sotto forma di sintomo patologico, lascia la possibilità di soddisfare e reprimere al tempo stesso la pulsione, di adeguarsi e rifiutare nel medesimo momento la realtà.Tale obiettivo però è stato raggiunto a caro prezzo, ossia attraverso: "una lacerazione dell’Io che non si cicatrizzerà mai più, che anzi si approfondirà col passare del tempo. Le reazioni antitetiche al conflitto permarranno entrambe come nucleo di una scissione dell’Io." Quella che andrà perduta sarà la funzione sintetica dell'Io, tante volte data per scontata, ma che è in realtà suscettibile di tutta una serie di disturbi.

Il processo in atto nel feticismo, che mira a preservare il pene femminile, attraverso l'ausilio di un feticcio colpisce per il suo carattere di distogliemento della realtà, aspetto che avevamo visto essere tipico della psicosi, Il processo però non è totalmente identico, il soggetto infatti non ha smentito la propria percezione sensoriale allucinando un pene la dove non era visibile, ma ha: effettuato uno spostamento di valore trasferendo l'importanza del pene a un'altra parte del corpo, servendosi del meccanismo della regressione. Il prezzo è il sopravvivere della paura, al quale il soggetto fa fronte attraverso una sovraccompensazione di mascolinità, la paura di evirazione viene evitata attraverso una regressione alla fase orale, manifestandosi come terrore di essere ingoiato dal padre.
 

sabato 18 aprile 2015

Linguaggio e giochi tossicomanici

Il tossicomane e il delinquente, entrambi fanno un uso falso del linguaggio (e non solo di esso). Offrono come terreno d'intesa, non senza contrattarne il prezzo, un linguaggio di gruppo che essi stessi sanno non esistere, nel senso che, se pure a volte viene usato, esso è finalizzato anche all'interno del gruppo all'evitamento della personalizzazione, della presentazione di se come persona. Offrono dunque un linguaggio che non vale una pipa di tabacco (o una fiutata di cocaina) e che si rivelerà invariabilmente una crosta vergognosa elaborata o affittata per non presentarsi e per esprimere contemporaneamente la propria incapacità di farlo.
Una seconda modalità di descrivere il medesimo fenomeno è il concetto di gioco tossico, che rappresenta una modalità comunicativa tipicamente osservata all'interno delle comunità terapeutiche e che si declina nel gioco del compiacere o della sfida, aspetti diversi ma che coincidono nello scopo di legittimare il non cambiamento, ovvero il mantenimento dell'identità costruita attraverso l'abuso di sostanze. Infatti il gioco del compiacere si alimenta attraverso racconti quali: "ho scelto di essere qui... sono qui per cambiare... cercherò di capire che cosa intendi tu per cambiamento per adeguarmi meglio alle tue richieste... ti farò credere che cambierò come tu ti aspetti che io cambi", viceversa, attraverso il gioco della sfida la persona veicola messaggi quali "non ho scelto di essere qui... non ho scelto di cambiare, tanto meno come tu vorresti che io cambiassi, sarai tu a cambiare per permettere a me di non cambiare". Poco importa che queste modalità discorsive siano la conseguenza di una funzione riflessiva deficitaria e di una profonda incapacità di nominare i propri stati emotivi, affetti, e desideri, e quindi di accedere, sempre che esista, ad una identità dalla quale differenziarsi, oppure che abbiano come scopo il sostenere un sé onnipotente, specchio di un lutto mai vissuto, ma che perpetua il bisogno di tenerezza e affetto che caratterizzano il personaggio tossicomane e delinquente. Tali modalità rappresentano l'empasse tipico che si incontra nel lavoro in comunità riabilitativa, che può essere fatto coincidere con la sensazione di trovarsi in cabina di pilotaggio con un pilota che delega completamente al co-pilota la guida del velivolo, senza condividere però l'itinerario e la meta da raggiungere, oppure nel pilota che ti vuole "far vedere come si fa" lasciandoti a margine o come esecutore della sua missione, con la forte sensazione che non finirà per nulla bene.
Tra questi due estremi, si situa quello che viene definito come gioco del co-cambiamento, che tende a veicolare il messaggio "io non ti dirò come tu devi cambiare, cambieremo insieme in base alla storia che ci siamo raccontati". In questa logica l'intervento comunitario non propone, ne prescrive alle persone il tipo di cambiamento da perseguire, ma nemmeno si lascia trasportare per deriva sulle regole o sulle richieste che i tossicomani propongono per cambiare l'identità del contesto. Tale modello di cambiamento non veicola un modello "forte" di uomo da realizzare, ma cambiano continuamente, accompagna la persona a costruire un proprio "modello personale" e ad attivare processi di cambiamento caratterizzati da una tensione a realizzarlo. Quindi la comunità affiancando la persona nel confrontarsi con i rischi della propria identità passata, con tutto il carico di sofferenza che il sentire porta con sé, per queste persone congenitamente poco inclini ad accettare quello che il corpo dice, cerca di costruire con la persona un'altra storia e le propone di attivare processi di cambiamento orientati a tale storia, che terrà conto dei bisogni e delle risorse personali. Il messaggio sotteso a questo tipo di intervento è "Io cambierò continuamente il mio modo di intervenire con te, agendo anche diversamente da come farò con altri, rispettando la storia che ci siamo raccontati e gli obiettivi che abbiamo condiviso, questo però richiederà a te di cambiare continuamente  il tuo modo di agire con me, nello sforzo congiunto di avvicinarci il più possibile a ciò che abbiamo immaginato di realizzare insieme." 

Il Linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione

Il punto di partenza di Ferenczi è la constatazione che la ripetizione quasi allucinatoria di esperienze traumatiche in analisi e la conseguente abreazione di ingenti quantità di affetti rimossi non hanno l'effetto di allentarne la sovrastruttura e conseguente formazione di sintomi ma che al contrario portano ad aumentare gli stati ansiosi e gli incubi notturni e alla degenerazione della seduta d'analisi in un attacco isterico.
Il contenuto di questi attacchi consistevano in sfoghi di irritazione e di rabbia che portarono Ferenczi a interrogarsi sulla fondatezza della sua tecnica. A seguito di ciò afferma che i suoi pazienti anziché contraddire o incolpare l'analista di passi falsi od errori si identificavano con lui e che solo in stati isteroidi prossimi all'incoscienza potevano permettersi di esprimere delle lagnanze. Fatti come questi impongono all'analista di interrogarsi non soltanto sui fatti incresciosi del passato ma anche sulle critiche violente espresse dal paziente nei riguardi dell'analista. Solo un'analisi condotta “fino in fondo”, e che ha portato a conoscenza di tutti i tratti sgradevoli esterni ed interni del proprio carattere, permette di non farsi cogliere alla sprovvista dai moti d'odio dei propri pazienti.
Tra i più importanti empasse relazionali Ferenczi individua “l'ipocrisia del lavoro professionale” che corrisponde alla promessa di ascoltare con attenzione il paziente, di dedicargli il nostro interesse , di metterlo a suo agio e di farlo progredire nonostante alcune sue caratteristiche ci risultino insopportabili. Il suggerimento è di abbandonare tale posizione, interrogando in se stessi cosa tanto disturba del paziente e comunicarglielo, il venir meno di questa insincerità nel rapporto ne aumenta la qualità “sciogliendo la lingua” al paziente, facilitando la traduzione degli eventi traumatici del passato in pensieri senza perdita di equilibrio psichico ma al contrario innalzando tutto il livello della personalità del paziente.
Dalla risoluzione di tale intoppo di tecnica analitica segue la constatazione che il non pronunciarsi su ciò che del paziente ci appare intollerabile è una riproposizione dell'azione patogena infantile e una ripetizione del trauma, e che al venir meno di questa ipocrisia professionale segue una certa “fiducia che è quel certo non so che, grazie a cui si delinea il contrasto tra il presente e l'intollerabile passato traumatogeno, contrasto indispensabile, affinché il passato sia rivissuto anziché come riproduzione allucinatoria come ricordo oggettivo”. Tale fiducia ha permesso all'autore di accedere ad un rapporto più intimo con i suoi pazienti e ad alcuni fatti che sembrano confermare l'importanza del trauma, in particolar modo sessuale, come agente patogeno.
In particolar modo descrive come quanto avviato dal bambino come fantasia ma mantenuto al livello della tenerezza viene scambiato dall'adulto con tendenze patologiche come desideri di una persona sessualmente matura.
La reazione dei bambini è “dominata dalla paura, dal sentirsi indifesi fisicamente e moralmente, ammutoliti e privati dalla forza e dall'autorità degli adulti di pensare. Questa paura li porta a sottomettersi alla volontà dell'aggressore a indovinare tutti gli impulsi di desiderio e dimentichi di sé, a seguire questi desideri identificandosi con l'aggressore”. Con quella che si può chiamare come introiezione dell'aggressore quest'ultimo scompare come realtà esterna diventando un evento intrapsichico e come tale cade sotto al dominio del processo primario e quindi trasformabile in allucinazioni positive e negative. Nella vita psichica del bambino il mutamento più importante è l'introiezione del senso di colpa dell'adulto che fa apparire quanto considerato come un gioco innocente un'azione colpevole.
Questo porta alla sensazione di esser diviso in due, come colpevole e innocente nel medesimo momento e sfiduciato nella possibilità di manifestare il proprio pensiero. Il bambino diventa una creatura che obbedisce in modo meccanico oppure ostinato, incapace di comprendere il motivo della propria ostinazione. La sua vita sessuale rimane involuta o assume forme perverse a cui possono seguire una nevrosi o una psicosi: la personalità ancora debolmente sviluppata risponde al dispiacere improvviso anziché con processi di difesa, con l'identificazione con la paura e l'introiezione di colui che minaccia e aggredisce.
Questo permette di comprendere come mai certi pazienti rispondano con dispiacere ad un torto subito, invece che con odio e processi di difesa; questo avviene perché una parte della personalità, o il suo nucleo è rimasta ferma ad un livello in cui reagisce alle aggressioni in modo autoplastico anziché alloplastico. Ferenczi arriva così a scorgere una personalità composta unicamente da Es Super-Io a cui manca la capacità di affermare se stessa anche nel dispiacere, così come accade nei bambini piccoli per il quale l'esser soli, senza la protezione della madre o di altri, ossia privati di un rilevante quantitativo di tenerezza, è una condizione insopportabile.
Ferenczi ritiene che l'amore oggettuale passivo, ovvero la tenerezza, sia una premessa all'amore oggettuale maturo. In tale stadio il bambino gioca con la fantasia di prendere il posto della madre, ma in realtà non vuole e non può fare a meno di essa. Se in questa fase il bambino subisce più amore o amore di altra natura di quello che desidera ciò può avere conseguenze altrettanto, se non più patogene, della frustrazione amorosa. Ad di là di una disamina di tutte le diverse patologie del carattere che possono derivane la conseguenza generale può essere quella della confusione tra linguaggio degli adulti adulti e quello dei bambini. Ferenczi suggerisce la rassegnazione al fatto che dietro l'adorazione o l'amore di transfert di bambini, allievi e pazienti vi è l'ardente desiderio di liberarsi da un amore che intralcia, e che la risoluzione di transfert molesti porta la personalità ad un livello di funzionamento più alto.
Avviandosi alla conclusione Ferenczi vuole indagare come oltre all'amore forzato anche le insopportabili misure punitive (sanzioni disciplinari connotate da passionalità ed espressioni rabbiose, portano a livello di realtà ciò che nella mente del bambino era solo una fantasia. Prosegue poi nell'analisi di un secondo fenomeno, oltre a quello della regressione traumatica, che colpisce un individuo in conseguenza di uno shock, la progressione traumatica o precocità, che consiste nel dispiegarsi immediato di future attitudini, o attitudini potenziali che in genere fanno parti del matrimonio, della paternità o della maternità. La paura degli adulti privi di inibizioni, e perciò per un certo punto di vista pazzi, fa per così dire dire del bambino uno psichiatra; per diventare tale e difendersi dai pericoli rappresentati dalle persone prive di controllo, egli deve sapere innanzitutto identificare completamente con esse.

Concludendo Ferenczi scrive che oltre all'amore passionale e la punizione passionale gli adulti dispongono di una terza via per legare a se i bambini: il terrorismo della sofferenza. I bambini hanno bisogno di appianare qualsiasi specie di disordine in famiglia, per così dire di caricare sulle proprie spalle il peso che grava su quelle di tutti. Una madre che si lamenta delle proprie sofferenze può fare della figlia la propria infermiera a vita procurandosi un sostituto della sua e senza curarsi dei veri bisogni e degli interessi della figlia.  [Sandor Ferenczi 1932]

venerdì 13 marzo 2015

Nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa

In questo saggio Freud approfondisce lo studio delle ossessioni, delle fobie e della paranoia avviata nel 1894 con “Neuropsicosi da difesa”, continuato nel testo del 1895 “Ossessioni e fobie” e che si conclude con quest'ultimo scritto “Ulteriori osservazioni sulle neuropsicosi da difesa” del 1896.

Freud riconosce all'interno delle neuropsicosi da difesa tre tipologie di disturbi: l'isteria, la nevrosi ossessiva e alcune tipologie di paranoia derivandone la loro causa dalla rimozione di ricordi penosi e i loro sintomi dal contenuto di ciò che è stato rimosso. Ciò che cambia tra le tre patologie è il meccanismo di rimozione, conversione in innervazione somatica nell'isteria, sostituzione (lungo alcune catene associative di pensiero) nella nevrosi ossessiva e proiezione nella paranoia.

Etiologia dell'isteria
All'interno del capitolo Freud vuole spiegare la genesi dei sintomi delle neuropsicosi da difesa, tra cui, nel 1894 aveva racchiuso isteria, ossessioni, e confusione allucinatoria, in particolare vuole approfondire la teoria che i sintomi derivino dal tentativo di rimuovere una rappresentazione incompatibile con l'Io. Tali rappresentazioni sono riconducibili ad esperienze traumatiche di natura sessuale (di tipo passivo per l'isteria, di tipo prima passivo e poi attivo nella nevrosi ossessiva). Andando oltre ai lavori precedenti (1894) situa tali traumi nell'infanzia, in particolare specifica ulteriormente che non sono le esperienze ad avere effetto traumatico ma il loro rivivere come ricordo, dopo che il soggetto ha varcato la soglia della maturità sessuale.
Non è per Freud possibile dire con certezza fino a quale età massima del soggetto un'offesa sessuale possa agire come fattore etiologico dell'isteria, giudica però improbabile la rimozione dopo l'ottavo-decimo anno di età, il limite minimo si estende invece fino a dove può giungere la capacità di ricordare, cioè fino all'età di un anno e mezzo o due anni.
Introducendo il trauma sessuale infantile Freud riesce ad andare oltre all'ipotesi di una congenita disposizione isterica. Infatti afferma come sia possibile dimostrare che le esperienze e gli eccitamenti che nel periodo di vita successivo alla pubertà preparano o causano lo scoppio dell'isteria, agiscono riattivando la traccia mnestica di questi traumi infantili, tale traccia non diviene cosciente neppure allora, ma conduce alla liberazione di un effetto e alla rimozione da cui poi originano i sintomi.

La natura ed il meccanismo della nevrosi ossessiva.
Le esperienze sessuali precoci nella prima infanzia hanno lo stesso significato nella nevrosi ossessiva e nell'isteria, ciò che cambia è il passaggio da una passività sessuale ad atti di aggressione. Nell'analisi dei suoi soggetti ossessivi Freud rintraccia sempre un episodio di seduzione precoce e precedente all'aggressività sessuale e al substrato di sintomi isterici comunque presenti nella nevrosi ossessiva.
Freud definisce le idee ossessive come dei rimorsi trasformati riemersi dalla rimozione e che si ricollegano sempre ad alcuni atti sessuali che sono stati compiuti con piacere nell'infanzia. In un primo momento, di apparente salute psichica, tali atti sessuali vengono rimossi e sostituiti dal soggetto con un sintomo primario di difesa (difesa dal contenuto rimosso): tra cui l'eccessiva coscienziosità, la vergogna e la sfiducia in se stessi.

Il periodo successivo, quello della malattia, è caratterizzato dal ritorno dei ricordi rimossi, cioè dal fallimento della difesa. Tali ricordi non riemergono immutati nella coscienza: quelli che diventano affetti ed idee ossessive consci sono delle strutture che hanno la natura di compromesso tra le idee rimosse e quelle che le rimuovono.


Vi sono due forme di nevrosi ossessiva a seconda del fatto che ad essere rimossi siano i contenuti mnestici dell'atto o gli affetti riprovevoli connessi ad essi.

La prima forma comprende le tipiche idee ossessive in cui il contenuto attrae l'attenzione del paziente e come affetto egli prova un dispiacere indefinito. Il contenuto dell'idea ossessiva viene distorto in due modi: qualcosa di contemporaneo viene messo al posto di qualcosa che appartiene al passato e poi qualcosa di sessuale viene sostituito con qualcosa che non sia sessuale.

La seconda forma di nevrosi ossessiva si ha quando ciò che è riemerso dalla rimozione non è il contenuto mnestico, ma il rimorso (affetto). In questo modo il rimorso per atti sessuali commessi in infanzia può trasformarsi in vergogna (timore che qualcun altro lo venga a scoprire), in angoscia ipocondriaca (paura dei danni fisici che possono derivare dall'atto), in angoscia sociale (paura di venire punito dalla società), in angoscia religiosa, in delirio di attenzione (paura che qualcuno riveli l'atto), oppure paura della tentazione (una sfiducia giustificata nei propri poteri morali).

Nel paragrafo successivo Freud spiega l'origine delle azioni ossessive (compulsioni) come effetto di una difesa secondaria (difesa da quanto sopravvive alla difesa primaria) e descrivendole come misure protettive contro le idee ossessive.
Il paziente cerca di rendersi padrone di ciascuna delle sue idee ossessive con un lavoro di logica e attingendo ai suoi ricordi consci, ciò lo porta ad un pensare ossessivo, ad una pulsione a provare le cose e ad una mania di dubitare. Il rimuginare ossessivo se ha successo tratta regolarmente di cose astratte e soprasensuali poiché idee che sono state rimosse hanno a che fare con la sessualità. In generale la difesa secondaria contro gli affetti ossessivi porta ad una serie più ampia di atti ossessivi: misure penitenziali (opprimenti cerimoniali, aritmomania), misure precauzionali (fobie, superstizioni, pedanteria, coscienziosità), misure che hanno a che fare con la paura di tradirsi o che assicurano l'intorpidimento della mente.

Analisi di un caso di paranoia cronica.
Nel presentare il caso Freud sottolinea come non tutti i casi di paranoia siano casi di psicosi da difesa e nelle pagine successive riporta il caso signora P. (paziente affetta da confusione mentale e depressione, sospettosità e timori di persecuzione o d'essere spiata, allucinazioni visive in cui vedeva donne nude, specialmente la parte bassa dell'addome e genitali maschili. La signora P. era affetta anche da allucinazioni uditive, nelle quali ogni sua azione veniva commentata e criticata). Nell'analisi del caso, attraverso le stesse tecniche usate con le pazienti isteriche, Freud riconduce la sintomatologia della paziente al tentativo di rimozione di esperienze di natura sessuale (con il fratello).
Nel descrivere l'etiologia della paranoia Freud la confronta con la nevrosi ossessiva: in quest'ultima il rimorso iniziale è stato rimosso dalla formazione del sintomo primario di difesa: diffidenza verso se stessi. Nella paranoia il rimorso viene escluso dalla coscienza attraverso la proiezione e quindi il sintomo primario è la diffidenza verso le altre persone, in questo modo il soggetto esclude completamente il rimorso dalla coscienza che ritorna però nella forma di idee deliranti.

Altri sintomi del caso riportato (la signora P.) si possono descrivere come sintomi del ritorno del rimosso. Tali sono ad esempio l'idea delirante della paziente di essere guardata mentre si spogliava e le allucinazioni visive e uditive (esperienze fatte con il fratello e adesso riferite all'esterno parzialmente deformate). Infine Freud spiega l'origine delle idee deliranti, queste arrivate alla coscienza per mezzo del compromesso, fanno pressione sull'attività di pensiero dell'Io così da essere accettate senza contraddizione. Queste idee non sono aperte ad alcuna influenza è l'Io che si deve adattare ad esse e quindi, ciò che qui corrisponde ai sintomi della difesa secondaria nella nevrosi ossessiva, è una formazione delirante che cerca di armonizzare le differenti parti del materiale, allucinazioni interpretative che si concludono con una alterazione dell'io.

venerdì 27 febbraio 2015

Il metodo dell'interpretazione dei sogni


Nel secondo capitolo dell'interpretazione dei sogni Freud vuole dimostrare che i sogni sono suscettibili di interpretazione andando contro la più diffusa ipotesi dell'epoca che imputava l'origine del sogno non ad un atto mentale ma ad un processo somatico. Prima di iniziare a presentare il suo metodo riporta come nella cultura profana i tentativi di interpretazione dei sogni erano a già diffusi con diverse metodologie distinguibili in interpretazioni simbolica e interpretazione cifrata. 

Nel primo caso il contenuto del sogno viene considerato nella sua totalità cercando di sostituirlo con un altro contenuto più facilmente comprensibile ma analogo. Come esempio Freud riporta il sogno del faraone, in cui le sette vacche magre divorano sette vacche grasse, nel sogno era avvenuta una sostituzione simbolica di sette anni di carestia che sarebbero seguiti sette anni di abbondanza). 

Nel nel caso dell'interpretazione cifrata invece ogni elemento del sogno viene interpretato singolarmente attraverso una chiave prefissata (un manuale dei sogni). Una variante particolare “Interpretazione dei sogni di Artemidoro” introduce oltre alla chiave applicabile in modo generale la possibilità di considerare il contesto di vita del sognatore. 

Nella sua opera Freud sottolinea come abbia cercato di riunire il senso comune e popolare dell'interpretabilità dei sogni con il metodo della scienza. La sua metodologia di indagine dei sogni si inserisce nella più ampia ricerca sulle modalità di eliminazione delle formazioni psicopatologiche (fobie isteriche, rappresentazioni ossessive). Infatti per questo scopo Freud si serviva dei racconti dei suoi pazienti e delle idee associate ai sintomi e nelle sue sedute si accorse come spontaneamente i pazienti arrivavano a raccontare i propri sogni, da qui il suo tentativo di indagarli come sintomi. 

Freud in queste pagine descrive due atteggiamenti riguardo alle modalità di racconto dei sogni, la prima è una riflessione su di essi, parziale in quanto guidata dal senso critico, la seconda invece, è completamente imparziale perché il paziente riferisce tutto ciò che gli viene in mente liberamente. E' da questo materiale, e solo questo, che considera possibile l'interpretazione delle idee patologiche e delle creazioni dei suo sogni. Assimila inoltre questo stato, in cui le idee affiorano liberamente alla coscienza, allo stato precedente l'addormentamento o a quello dell'ipnosi, definendolo come lo stato psichico di attenzione mobile. 

Nelle pagine successive, dopo aver descritto l'esito dannoso del senso critico sulla creatività, passa a specificare la sua metodologia di indagine. 

Il primo passo consiste nel non considerare il sogno nel suo insieme, ma raccogliere le associazioni o idee di fondo su singoli segmenti di sogno, specificando come il suo metodo è attinente non tanto a quello simbolico, che interpreta il sogno nel suo insieme, ma quello cifrato, che considera il sogno un conglomerato di rappresentazioni psichiche. 

Prima di passare all'interpretazione di un suo sogno Freud specifica alcuni aspetti di metodo, infatti afferma come disponga di grande materiale derivato dai sogni dei suoi pazienti nevrotici, ma che questo materiale, se pur utile nell'indagine della nevrosi, potrebbe essere considerato non accettabile per spiegare il funzionamento dei sogni nel soggetto sano. Non può però utilizzare i sogni di persone sane di sua conoscenza o quelli citati come esempi nella letteratura riguardante la vita onirica in quanto per essere interpretabile un sogno deve essere letto all'interno dell'analisi di un individuo in quanto è certo “che lo stesso contenuto nasconda un significato diverso a seconda delle persone diverse e dai contesti diversi”. L'unica alternativa che gli rimane è la scelta di un proprio sogno, accettando la necessità di “confessare le le sue debolezze per chiarire un problema oscuro”.

Premessa al sogno
Irma era una ‘giovane signora’, amica di famiglia che Freud aveva curato per una sua angoscia isterica, con risultati solo parzialmente soddisfacenti. Un collega più giovane di Freud, Otto , aveva incontrato durante le vacanze estive Frau Irma, ed aveva riferito a Freud che la sua paziente stava meglio, «ma non completamente bene». Le parole ed il tono dell’amico Otto avevano irritato Freud, che vi aveva scorto una sorta di rimprovero per aver fatto alla paziente promesse di guarigione che non era stato poi in grado di mantenere. Per questo la sera prima del sogno aveva scritto la cartella clinica di Irma, per farla avere al Dr. M., un amico comune e principale esponente del loro gruppo di lavoro. 

Sogno: Un grande salone – stavamo ricevendo numerosi ospiti. – Tra di essi c’è Irma. Io la presi in disparte, come per rispondere alla sua lettera e rimproverarla di non aver ancora accettato la mia «soluzione». Le dissi: «Se hai ancora dei dolori è davvero solo colpa tua». Mi rispose: «Se solo tu sapessi che dolori ho ora in gola, nello stomaco e nel ventre, mi soffocano». Io mi spaventai e la guardai. Era pallida e gonfia. Pensai che dopo tutto dovevo aver trascurato qualche disturbo organico. La portai vicino alla finestra e le guardai in gola, e lei mostrò una certa riluttanza, come le donne con la dentiera. Io pensai che veramente non c’era bisogno di farlo. Poi lei aprì bene la bocca e sulla destra trovai una grande macchia bianca; in un altro punto vidi delle estese croste grigiastre su delle forme notevolmente incurvate, che imitavano evidentemente le cavità nasali. Chiamai subito il Dr. M. ed egli ripeté l’esame e lo confermò… Il Dr M. sembrava molto diverso dal solito, era pallido, zoppicava e non aveva la barba… Anche il mio amico Otto era ora vicino a lei, e il mio amico Leopoldo stava percuotendo il suo petto e diceva: «Ha un’area ottusa in basso a sinistra». Indicò anche che una parte della pelle sulla spalla sinistra era infiltrata (lo sentii come lui, nonostante il vestito)… M. disse: «Non c’è dubbio, si tratta di un’infezione, ma non importa: interverrà la dissenteria e le tossine saranno eliminate»… Noi conoscevamo anche l’origine dell’infezione. Non molto prima, quando lei si sentiva poco bene, il mio amico Otto le aveva fatto un’iniezione di propile… propili… acido /propionico… rimetilammina (e vidi davanti a me la formula stampata in grassetto)… Iniezioni di quel genere non si dovrebbero fare così sconsideratamente… E probabilmente la siringa non era pulita. 

Interpretazione del sogno 

Nelle pagine successive Freud, segmento per segmento, frase per frase, cerca di interpretare il significato del suo sogno. Da una prima lettura quello che mi è saltato all'occhio sono le serie di frasi come: "mi viene in mente", "mi ricordò improvvisamente un'altra esperienza", "cominciai a sospettare di aver sostituito" che lasciano intendere la metodologia di analisi del sogno: usare come materiale per costruire l'interpretazione i pensieri contigui a quelli espressi nel racconto.

Prendo ad esempio un passaggio: "La portai vicino alla finestra per guardarle in gola. Ella mostrò una certa riluttanza, come le donne che hanno una dentiera. Io pensai che veramente non c'era bisogno di farlo.”

e la relativa interpretazione:

Il modo in cui Irma stava vicino alla finestra mi ricordò improvvisamente un'altra esperienza. Irma aveva un'intima amica che io stimavo molto [...] Mi veniva ora in mente che negli ultimi mesi avevo avuto tutte le ragioni per credere che anche quest'altra signora fosse isterica. Che cosa conoscevo delle sue condizioni? Solo una cosa: che, come l'Irma del mio sogno soffriva di soffocamento isterico. Quindi nel sogno avevo sostituito la mia paziente con l'amica. [...] Quale poteva essere la ragione per cui l'avevo scambiata nel sogno con la sua amica? Forse era perché mi sarebbe piaciuto scambiarla: o sentivo maggiore simpatia per la sua amica o avevo una migliore opinione della sua intelligenza. Irma infatti mi sembrava sciocca per non aver accettato la mia soluzione. La sua amica sarebbe stata più saggia, cioè avrebbe ceduto prima.” [pp. 86-87, L'interpretazione dei sogni Edizione Newton].

Da questo breve testo del capitolo desumiamo anche un secondo aspetto che si sintetizza nella celebre frase che "il sogno è realizzazione di un desiderio".
Nel segmento in particolare Freud afferma di essersi voluto vendicare di Irma sostituendola con una sua amica migliore. 
In generale invece, il sogno rappresenta la soddisfazione dei desideri sorti in Freud a seguito delle informazioni ricevute da Otto e la stesura della cartella clinica nella sera precedente al sogno: il desiderio di punire ed umiliare sia Irma, sia il suo amico e collega Otto oltre che il Dr. M. Di Otto si era vendicato attribuendogli una iniezione evidentemente pericolosa del Dr. M. facendogli pronunciare un parere scientificamente discutibile sulla dissenteria, come rimedio all’intossicazione. Inoltre il sogno liberava Freud dalla responsabilità per le condizioni di Irma, dimostrando che esse erano dovute ad altri fattori (nel sogno era presente la paura, che in realtà era sollievo che i sintomi della donna fossero riconducibili a fattori organici), infine nel sogno era presente una più generale tematica di preoccupazione per la salute sua, e di altre persone e coscienziosità professionale, che lo difendevano, almeno parzialmente dall'accusa di essere un medico superficiale. 

lunedì 23 febbraio 2015

La parola al crepuscolo delle cose

A partire dalla fondazione del logos di Aristotele, dal quale dire è significare, in regime di non contraddizione, nella morsa di un principio e d'una fine, uniti da una lunga catena di cause ed effetti, ad ogni parola segue un "qualche cosa", e solo uno, a cui però fa da parallelo un sentimento d'inquietudine, noto a chi cerca di dare un nome ad un "qualche cosa", per il carattere mortifero del parlare nel quale lentamente la definizione cede, tanto più è vicina tanto più appare vuota. Nella lettura che Jullien fa del taoismo viene proposto un altro modo di intendere il parlare, svincolato da questo "qualche cosa", che appare al limite dell'insensato se letto con mente occidentale. Un taoismo che sprona a parlare senza parlare, come sprona ad agire senza agire, a dar battaglia senza dar battaglia.

Nel suo testo "parlare senza parole" Jullien va alla ricerca di risorse perdute dal pensiero occidentale nell'uso della parola, voglio proporre due paragrafi che permettono di accedere alla penombra (il tao è indistinto e vago), di tali risorse. Il primo ci informa sul rischio della definizione, non tanto come qualcosa di mortifero per l'oggetto, ma che recidendolo dal flusso indistinto delle cose ci fa perdere la sua concretezza. Il secondo su un uso nuovo della parola, attraverso l'accesso a quanto rimane latente tra l'affermazione di due contrari, nella formula del "parlare senza parlare"

La definizione dice l'immobile, non l'effettivo.
 
"La definizione è passibile di farci perdere non tanto l'essenza intima, individuale e quindi ineffabile della cosa, quanto l'effettività attraverso cui qualcosa è in grado di verificarsi, di realizzarsi. Infatti secondo il pensatore taoista, vi è non-coincidenza, se non palese inversione o addirittura contraddizione, tra il segno caratteristico, o determinatezza, che la definizione riesce a cogliere, e ciò che a titolo processuale ha permesso il prodursi di tale determinazione. Sotto la determinatezza che la definizione enuncia, è lo sterile che viene colto, non il fecondo. La definizione esprime la capacità delle cose mentre essa si sta già disperdendo: ne esprime solamente l'uniforme, l'insipido e l'immobile. Con immobile non intendo semplicemente ciò che non si muove, piuttosto ciò che è morto e pietrificato, in quanto già abbandonato dalle sue capacità. Perciò questo immobile è anche ciò che viene esibito: la definizione esprime quanto viene esibito dalle cose, esprime ciò che di esse, funzionalmente, si rende visibile e le fa riconoscere e individuare. La definizione le cattura a valle, allo stadio in cui le loro potenzialità di prodursi, esibendosi e diventando completamente patente, si è già irrigidita e inaridita: i tratti caratteristici sono dei tratti induriti, già sclerotizzati; a essa sfugge il loro intenso "a monte", le recide dal loro emergere."

Leggendo queste righe me ne sono venute in mente altre sulla relazione tra filosofia e il suo tempo, la nottola di Minerva, descritta da Hegel:

"Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev'essere fatto il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell'e fatta. Ciò che il concetto insegna, la storia mostra appunto che è necessario: che, cioè, prima l'ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, colto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo." G.W.F. Hegel 1820

Parole che non uccidono la cosa, ma che la colgono solo quando è ferma, oppure che colgono solo quanto della cosa non è utilizzabile, è snaturato. Jullien continua:

"Prendiamo un uomo "pio"; qualcuno che gli altri chiamano pio, che si crede pio, che in ogni modo pretende di esser pio: già immaginiamo che la sua sarà una pietà spenta, piatta, gretta, meschina. La sua virtù non è ipocrita, ma povera: per il semplice fatto che si lascia identificare da segni tangibili essa perde lo slancio che, dispiegato senza oggetto né progetto, dovrebbe effettivamente costituire il suo principale pregio; quello slancio che per sua natura, è però troppo intenso e indiviso, troppo diffuso e allo stesso tempo disinvolto perché lo si possa isolare e, di conseguenza, identificare. Osservate d'altra parte come le virgolette prudentemente aggiunte, persino nell'oralità "i piccoli segni mimati con le dita", siano un prezioso avvertimento. Sono indice di una diffidenza. Graffiano, a suo passaggio, ciò che è troppo agevolmente scivola nella parola, ciò che è troppo accettato, troppo facilmente identificato per non risultare sospetto: questa determinatezza è troppo marcata e generalmente accettata perché non nasca il sospetto che si sia un po' svuotata dal suo senso. Attraverso le virgolette io denuncio l'eccessiva esplicitazione formale che troppo agevolmente coincide con la propria definizione e così la metto nuovamente a distanza. Saranno sufficienti a far intuire le mie riserve, io stesso non sono più sicuro di farmi completamente carico di un enunciato che è troppo conosciuto, troppo ben collocato all'interno dei termini della definizione e come tale etichettato per non esigere il proprio rovesciamento."

Ciò che agli occhi del pensatore taoista penalizza la definizione non è quindi il fatto che le cose siano insufficientemente stabili e le proprietà che le qualificano siano in divenire, ma piuttosto che la definizione, recidendo queste proprietà dal loro divenire e ripiegandole su loro stesse non lasci più apparire la qualità delle cose nel proprio emergere. Cosa accadrebbe se l'uomo di prima invece d'esser "pio" fosse "estensionista"?

Jullien continua:


Entrare nel pensiero taoista significa esattamente riaprire la possibilità di un "tra" i contrari. All'interno dell'enunciato una contraddizione non distrugge i contrari, e neppure li concilia, bensì attraverso il proprio negare, essa libera ciò che il proprio affermare reca in sé di limitativo e vincolante, di sterile e forzato. Nel pensiero taoista il parlare si intende come parlare senza parlare. Può essere più facile intenderlo con un altra contraddizione: agire senza agire, che non significa che non agisco, ma neanche che agisco, poiché ogni agire conduce generalmente all'attivismo. "Non agisco", nel senso in cui mi guado bene dall'agire allo stadio dell'a valle, quello del tangibile e dell'immobile, allo stadio delle azioni concordate e puntuali che, inserendosi in situazioni anche solo po' irrigidite, necessariamente suscitano la reticenza degli altri quanto la resistenza dei fatti. E tuttavia "agisco", nel senso che opero a monte, più vicino alla sorgente dell'effettività, allo stadio in cui la configurazione delle cose è ancora duttile e disponibile, cioè in grado di accogliere il mio intervento senza una rigidità sufficiente a contrastarlo. Non oso agire poiché evito di affrontare il corso delle cose allo stadio in cui, irrigidito, esso mi richiede in cambio di gravare con la mia volontà per forzare le condizioni e imporre loro il mio desiderio e la mia intenzione. Grande dispendio e poco effetto. Di contro agisco allo stadio del "non c'è" vale a dire allo stadio in cui, dato che nulla si è ancora costretto a distaccarsi e stagliarsi come azione individuale, ma può confondersi con la psicosessualità delle cose e unirsi alla sua propensione: quello stadio in cui non sono ancora immobilizzato dalle determinazioni, lo stadio in cui le definizioni vanno ad arenarsi, e posso operare senza problemi, in modo facile, in accordo non osando agire "favorisco quanto viene da sé"

Una formulazione che sembra essere una strategia d'azione. Ne è una riprova il fatto che essa è valida in ambito militare (il trattato del Laozi si presta a numerosi sviluppi nell'ambito della strategia bellica). Nella gestione del conflitto e nella condotta delle operazioni "avanzo" in modo più sottile di quanto non farei pretendendo semplicemente di guadagnare terreno: senza quindi aver bisogno di forzare eroicamente le linee avversarie, di presidiare un numero sempre maggiore di postazioni - sempre dispendiosi da proteggere - e senza bisogno di distruggere il nemico con azioni clamorose e assalti ostinati. La mia avanzata risulta tanto più reale per il fatto che non sono tenuto a concretizzarla in modo localizzato e per il fatto che essa consiste anzitutto nella progressiva erosione, fisica e morale, del capitale di resistenza del mio avversario. Poiché non si lascia relegare, e quindi ridurre, a delle posizione determinate, la superiorità che accumulo dalla mia parte risulta tanto meno contrastabile. 

Agire senza agire lascia così trasparire al centro stesso della contraddizione un "tra" più sottile: tra passività e bellicismo, tra ciò che da un lato, sarebbe pura debolezza e, dall'altro, un inutile rischio si afferma che l'arte della strategia consiste nell'accogliere l'avversario e non nell'attaccarlo, nell'indurlo allo sfinimento astenendosi da ogni aggressività (e vinse il generale inverno). E' necessario infatti trattenersi dal fare la guerra, e ancor di più dallo sfidare l'avversario, per condurla in maniera opportuna. Infatti l'avversario che si appresta a combattere al livello dei segni tangibili si lancia alla carica con pesantezza e affonda: per il semplice fatto che non riesce a individuarmi come bersaglio egli vede il proprio potenziale bellico consumarsi invano e, impacciato dalle postazioni che assunto sul terreno di guerra, e che ora lo paralizzano, si trova ridotto all'inerzia e si lascia sopraffare. Al contrario, non arenandomi in alcuna posizione fissa, sarò incline a rimanere all'erta: l'aggressività dell'avversario sarà di per sé sufficiente a mantene viva la mia reattività e io riuscirò a distruggerlo senza neanche doverlo affrontare. 

E quindi similmente posso dire "parlare senza parlare". Non rinuncio a parlare, ma libero subito la mia parola da ciò che essa ha di limitativo, legato al senso, che è necessariamente uno, e perciò di sterile e vincolante: io libero la mia parola da ciò che la costringe a dire, così come ho liberato il mio agire da quanto esso avevo di attivo. Questa parola senza parlare, che non possiede più nulla di individuato o attribuito, che non è più sottomessa alla determinazione di un senso e non verte più su un oggetto, aspira invece a un'intesa implicita che diviene immediata, come un flusso incitativo da un interiorità all'altra, che si dispensa dal meticoloso strumentario delle parole e lascia lontano dietro di sé qualsiasi contenuto astratto, visto come rigido e sclerotizzato. Quanto l'intenzione viene raggiunta, dimenticate la parola, poiché la parola ha come unica ragion d'essere quella di servire a catturare questa intenzione o tensione interiore: l'unica cosa che conta e l'al-di- à della parola. La pura strumentalità della parola viene poi definitivamente accantonata: infatti "una volta che il pesce è stato catturato si dimentica la nassa", "una volta che la lepre viene presa, di dimentica la trappola".
(Continua: parola e dia-logo)  [Parlare senza parole, Francois Jullien, 2006]

mercoledì 4 febbraio 2015

Introduzione alla psicologia analitica


Nelle prime due conferenze del 1935, tenute alla Tavistock Clinic di Londra, Jung descrive gli aspetti principali della psiche, nella struttura e nel funzionamento.

Definisce la coscienza come il prodotto della percezione e dell'orientamento nel mondo esterno; anche se inverte la sua relazione con l'inconscio rispetto al punto di vista freudiano, per il quale il materiale dai sensi passa alla coscienza e poi, sotto la spinta della rimozione, precipita nell'inconscio. Per Jung quel che viene prima è l'inconscio, mentre la coscienza ha origine da una condizione inconscia. Afferma poi che la coscienza può esser tale solo attraverso un io al quale rapportarsi, definendola quindi come il rapporto dei fatti psichici con l'Io.

Definisce l'io come un dato complesso, costituito in primo luogo da una generale consapevolezza del proprio corpo, della propria esistenza e in secondo luogo dai propri dati mnestici. Conclude descrivendo l'Io come: "un complesso di fatti psichici, un complesso dotato di un grande potere di attrazione, come un magnete, che attrae contenuti dall'inconscio, da quella oscura sfera di cui non sappiamo nulla; attrae anche impressioni dall'esterno, e tutto quel che entra in rapporto con l'Io diventa cosciente. Altrimenti rimane inconscio. "

Identifica poi diverse funzioni, che consentono alla coscienza di orientarsi nel campo dei fatti ectopsichici ed endopsichici. Per ectopsichico viene inteso un sistema di rapporti tra i contenuti della coscienza e le impressioni che provengono dall'ambiente. E' un sistema di orientamento che serve per mettersi in rapporto con i dati del mondo esterno trasmessi dalle funzioni sensoriali. Le funzioni endopsichiche sono invece un sistema di rapporti tra i contenuti della coscienza i processi che si presume siano in atto nell'inconscio.

Nel primo gruppo rientrano: la sensazione, il pensare, il sentire e l'intuizione. Con la sensazione intende la percezione sensoriale, che non dice che cosa sia l'oggetto e non informa in alcun modo su di esso, ma informa soltanto sulla sua presenza. La seconda funzione, quella del pensare, serve per dire che cosa è una certa cosa e darle un nome, e oltre ad implicare la percezione comporta anche un giudizio. La terza funzione è quella del sentire, che Jung include fra le funzioni razionali, e ci informa attraverso le sue tonalità affettive sul valore delle cose, ci dice se una cosa è accettabile o gradevole, in ultima istanza cosa conta per noi.
Riepilogando, la sensazione ci informa sul fatto che c'è una determinata cosa, il pensare ci dice che cosa è, mentre il sentire afferma quanto essa conta per noi. Dall'incontro con un altra categoria, il tempo, Jung estrare un'altra funzione, che ci informa sull'origine, e sul destino delle cose "un presentimento in proposito, o un fiuto", "un presentimento". Definisce questa funzione come intuzione, un insieme di capacità sulle quali l'uomo farà affidamento ogni qualvolta si debbano affrontare situazioni completmente nuove, senza poter contare su valori o concetti consolidati. 

Nella definizione della croce delle funzioni, Jung identifica un ulteriore concetto, quello di funzione inferiore. Ciò deriva dal fatto che le coppie Pensiero-Sentimento e Sensazione-Intuzione sono inversamente proporzionali in quanto tendono ad escludersi vicendevolmente. Ad una funzione particolarmente usata, ci sarà una particolare quota di indifferenziazione in quella opposta. La funzione inferiore non possiede le qualità di una funzione differenziata. Quest'ultima, in genere, può essere guidata dall'intenzionalità e dalla volontà. Mentre quando una funzione è indifferenziata, i suoi contenuti (le emozioni, i pensieri) esercitano sulla persona una particolare sorta di fascinazione, tendono a possedere il soggetto portandolo ad averne paura. Ma di contro la funzione inferiore, per essere più prossima all'inconscio, apre al soggetto una porta su di esso. [Introduzione alla psicologia analitica, C. G. Jung 1981]



sabato 24 gennaio 2015

Logos e Antilogos


"C'è un a priori, massiccio, mai denunciato in maniera sufficientemente radicale: ovvero che parlare non possa essere altro che dire una certa cosa, già relativamente circoscritta e individuata, che la parola va ad identificare non appena si parla. Detto altrimenti, che la parola debba lasciarsi soggiogare da "un qualche cosa", che debba rispondere a un "che cosa?", che debba vedersi assegnare un "oggetto": che ci sia immancabilmente bisogno di un oggetto del dire affinché il dire sia certo di essere, allo stesso tempo, praticabile e legittimo".

Costatato questo a priori, Jullien Francois si interroga sulla presenza di un resto nella parola, un resto del quale si siano perse le potenzialità. Si domanda sulle risorse di ciò che è parlare, sulla possibilità di riesplorare le potenzialità di questo atto in modo non meno scrupoloso di come oggi vengono riesplorate e valutate risorse di ogni genere perché sulla terra iniziano a scarseggiare. Porta ad interrogarsi quali riserve, quali giacimenti rinvenibili in altre culture siano stati negligentemente lasciati inesplorati.

Fondativo dell'uso del linguaggio limitato "al dire qualche cosa" Jullien trova già l'opera di Aristotele, per il quale, e dal quale, parte la strettissima associazione tra dire/significare e l'enunciazione del principio primo, che non dipende da nient'altro, e a monte del quale non è possibile andare: il principio di non contraddizione. Definizione del parlare che però non può far tacere l'inquietudine che nasce e si insinua alle sue spalle, il fatto che tale definizione si lascia sfuggire l'esperienza più comune, che considerare il "dire" sempre "significare" un qualche cosa mortifica già da subito le potenzialità di indeterminazione del senso della parola, indeterminazione che emerge e si riflette nei suoi più variegati usi, ad esempio poetici.

Tra le innumerevoli definizioni del poetico in questo caso ci si può attenere alla seguente: il poetico è ciò che non si lascia ridurre al dire qualche cosa e al significare qualche cosa. La poesia consiste nel dire senza scindere: al di sotto della disgregazione operata abitualmente dal linguaggio, è proprio la poesia che si dà il compito di "rompere per noi l'assuefazione" o di depurare le parole, che stabilisce connivenze, e mantiene tutto abbracciato. Il suo dire è comprensivo e liberato dall'esclusività. E possibile domandarsi se il carattere intrisicamente sognante che si attribuisce nostalgicamente al poetico (ma non interpretabile come un disimpegno nei confronti del mondo), e che certamente non appartiene al poeta ma al testo stesso, non esprima l'aspirazione a preservare questa intrinseca correlazione che indica al linguaggio il suo paradiso perduto: dove la parola non è solo atta a significare, in un regime di non contraddizione, ma tesa ad altro, quel qualcosa d'altro per il quale la parola della scienza (logos) rassicura, mentre l'arte (antilogos) inquieta.

Prosegue Francois affermando come la parola, il pensiero occidentale, debba, per mantenersi logico, essere incluso in due estremi, un principio, a monte del quale vi è solo l'illogicità, e che Aristotele pone nella non contraddizione, o anche una causa prima, non causata da nulla, a partire dalla quale tutte le altre conseguono e si spiegano. Questo impedisce una regressione all'infinito, all'interno della quale il pensiero rimarrebbe dissolto, ma al tempo stesso deve essere impedita una progressione illimitata, per cui il logos, il pensiero, deve essere delimitato anche da una finalità ultima.

"In questo modo è fissato quindi a monte un primo principio e fissato a valle un obiettivo ultimo, obiettivo di tutti gli obiettivi, polo verso il quale convergono tutte le mie aspirazioni e Fine supremo. Dispiegando il logos tra queste due estremità, delimitando così da entrambi i lati, inquadro la mia vita tra Dio, posto al principio dell'universo o del moto, e la ricerca della Felicità, posta come Fine ultimo della mia vita, gesto eminentemente europeo: la mia vita, rischiarata dalla luce del logos, tra luna e l'altra estremità del pensabile (articolabile), fa di questa traversata un destino."

Questa necessità di fondare la legittimità di un logos fissandone un limite dalle due parti, quella di partenza e di arrivo è finalizzata all'ossessione di Aristotele di preservare il logos dall'illimitato. Di respingere il vago (l'indefinito, l'incerto, l'indistinto) al di là dell'orizzonte del pensabile e dell'articolabile, di preservare il pensiero dall'infinito.

Ciò che fa da principio, avviando la possibilità stessa del pensiero, è necessariamente il partire da qualcosa di "non spiegato", infatti nel tentativo di voler cercare un logos di (su) ogni cosa automaticamente abolisce la possibilità del logos, e con esso, qualsiasi sapere. E' impossibile eliminare il logos mettendone in discussione il principio di identità (il principio di non contraddizione, il "non spiegato"), mentre è inevitabile che lo si elimini se lo si estende eccessivamente; a voler rendere conto di tutto non si rende più conto di niente. Il destino congiunto, assiomatico, della scienza e della filosofia, o per lo meno di quella che può rivendicare l'eredità di Aristotele dipende dal riconoscimento e dalla delimitazione di questo non spiegato iniziale, che il logos stesso, lungi dall'occultare come un assunto che non riesce a riconoscersi come tale, mostra come sua condizione di possibilità: il logos opera esclusivamente all'interno e per mezzo di limiti.

Il principio di non contraddizione presuppone un'identità delle proprietà o "caratteristiche" dell'essere in questione e sono queste che il logos enuncia come definizione. A tale approccio si contrapponevano i sostenitori del mobilismo universale, del tutto "scorre", non v'è niente che esista di per sé, che abolivano sin dal principio la possiblità di una qualsiasi proprità delle cose e, conseguentemente, di qualsivoglia definizione.
Aristotele replicava: "E' grazie all'arrestarsi e al rimanere ferma che la ragione pensa e conosce". Aristotele non esita a collegare episteme, "la scienza", alla radice stenai "fermarsi". A partire da questo momento la filosofia europea ha maturato a lungo tale dilemma fino ad esserne esausta: se definisco io stabilizzo e, di conseguenza, fisso e immobilizzo indebitamente ciò che per natura è sempre "in movimento" (ma se non rendo stabile e  non definisco dovrò rinunciare alla conoscenza e la scienza ne sarà il prezzo). Se infatti da un lato sospettiamo che la definizione imponga la propria rigidità, nondimeno dovremmo riconoscere quanto essa offre in termini di comodità. Se anche l'accusiamo di arbitrarietà e quindi, di una certa falsità, nondimeno riconosciamo che è necessario stringere all'interno di questa morsa tutto ciò che, dalle cose, scorre, così da avare presa su di esse e poterle maneggiar per mezzo della parola e poter quindi agire e conseguire un effetto.

La definizione è passibile di farci perdere non tanto l'essenza intima, individuale e quindi ineffabile della cosa, quanto l'effettività attraverso cui "qualcosa" è in grado di verificarsi, di realizzarsi.Vi è non-coincidenza, se non palese contraddizione, tra il segno caratteristico, o determinatezza, che la definizione riesce a cogliere, e ciò che a titolo processuale, ha permesso il prodursi di tale determinazione. Sotto la determinatezza che la definizione enuncia, è lo sterile che viene colto, non il fecondo. La definizione esprime la capacità delle cose mentre essa si sta già disperdendo: ne esprime solamente l'uniforme, l'insipido e l'immobile. Per immobile intendo piuttosto ciò che è morto e pietrificato, in quanto già abbandonato dalla sua capacità: in esso il reale si lascia distaccare e percepire anatomicamente in termini di attributi, poiché questi ultimi si sono già un po' ritratti. Perciò questo immobile è anche ciò che viene esibito: la definizione esprime quanto viene esibito dalle cose, esprime ciò che di esse, funzionalmente si rende visibile e le fa riconoscere e individuare. La definizione le cattura a valle, allo stadio in cui la loro potenzialità di prodursi, si è già irrigidita e inaridita: i tratti caratteristici sono dei tratti induriti, già sclerotizzati.

Prendiamo un uomo "pio"; qualcuno che gli altri chiamano pio, che si crede pio, che in ogni modo pretende di esser pio: già immaginiamo che la sua sarà una pietà spenta, piatta, gretta, meschina. La sua virtù non è ipocrita, ma povera: per il semplice fatto che si lascia identificare da segni tangibili essa perde lo slancio che, dispiegato senza oggetto né progetto, dovrebbe effettivamente costituire il suo principale pregio; quello slancio che per sua natura, è però troppo intenso e indiviso, troppo diffuso e allo stesso tempo disinvolto perché lo si possa isolare e, di conseguenza, identificare. Osservate d'altra parte come le virgolette prudentemente aggiunte, persino nell'oralità "i piccoli segni mimati con le dita", siano un prezioso avvertimento. Sono indice di una diffidenza. Graffiano, a suo passaggio, ciò che è troppo agevolmente scivola nella parola, ciò che è troppo accettato, troppo facilmente identificato per non risultare sospetto: questa determinatezza è troppo marcata e generalmente accettata perché non nasca il sospetto che si sia un po' svuotata dal suo senso. Attraverso le virgolette io denuncio l'eccessiva esplicitazione formale che troppo agevolmente coincide con la propria definizione e così la metto nuovamente a distanza. Saranno sufficienti a far intuire le mie riserve, io stesso non sono più sicuro di farmi completamente carico di un enunciato che è troppo conosciuto, troppo ben collocato all'interno dei termini della definizione e come tale etichettato per non esigere il proprio rovesciamento.

Ed è così che per quanto non si metta in dubbio che l'uomo riconosciuto come virtuoso desideri effettivamente essere virtuoso, il problema è che egli incalza troppo da vicino la virtù, in modo troppo diligentemente a ciò che viene definito come "ideale di virtù" e compie così, una ad una, delle azioni virtuose troppo facilmente identificabili, che sono certamente degne di lode, ma che lo portano a non cogliere ciò che effettivamente fa della virtù uno scaturire inesauribile. La non-coincidenza tra effettività e determinatezza: tra, da una parte, la capacità dell'opera che nel suo scaturire deborda e smantella ogni possibile determinazione e, dall'altra parte, ciò che della determinazione diviene quando si codifica e favorisce la definizione, ormai completamente circoscrivibile e perciò specificabile: una frammentazione di determinatezze specifiche che, nella loro meticolosa etichettatura, non colgono più nulla di ciò da cui scaturiscono. [Parlare senza parole, Francois Jullien, 2006]

sabato 17 gennaio 2015

I vizi personali


Ci trovavamo in un campo immenso, un campo di grano piatto e monotono, che si stendeva fino all'orizzonte. A spezzare il tedio di quel paesaggio, solo una colonna medievale sormontata da una croce che indicava il cammino ai pellegrini. Arrivando davanti alla colonna, Petrus posò lo zaino sul terreno e si inginocchiò, Mi chiese di fare la stessa cosa.

"Adesso pregheremo. Pregheremo per l'unica cosa che sconfigge un pellegrino quando trova la propria spada: i vizi personali. Per quanto egli apprenda dai grandi maestri a maneggiare la lama, il suo peggior nemico sarà sempre una delle sue mani. Pregheremo perché, qualora tu riesca a trovare la spada, la impugni sempre con la mano che non ti tradisce.

"Abbi pietà signore, perché siamo pellegrini in cammino verso Compostela, e questo può essere un vizio. Nella tua infinità pietà, aiutaci a non utilizzare mai la conoscenza contro noi stessi.

"Abbi pietà di coloro che provano pietà verso se stessi che si ritengono buoni e trascurati dalla vita, e sostengono che non meritavano le cose che gli sono accadute giacché costoro non riusciranno mai a combattere il buon combattimento. Ma abbi ancora più pietà di coloro che si dimostrano crudeli con se stessi, che scorgono soltanto la cattiveria nei propri atti e che si considerano colpevoli per tutte le ingiustizie del mondo. Perché costoro non hanno conosciuto la tua legge che dice "persino i capelli del vostro capo sono contati."
"Abbi pietà di coloro che comandano e di coloro che servono per molte ore di lavoro, e si sacrificano in cambio di una domenica in cui ogni negozio è chiuso e non esiste alcun posto dove andare. Ma abbi ancora più pietà di coloro che santificano le proprie opere e si spingono oltre i limiti della propria follia, e finiscono indebitati o inchiodati alla croce per i loro fratelli. Perché costoro ignorano la tua legge che dice: "siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe".
Abbi pietà perché l'uomo può dominare il mondo e non combattere mai il buon combattimento con se stesso. Ma abbi ancora più pietà di coloro che hanno vinto il buon combattimento con se stessi e adesso si trascinano fra angoli e bar della vita, perché non sono riusciti a sconfiggere il mondo. Perché costoro ignorano la tua legge che dice: chiunque ascolta le mie parole e le mette in pratica sarò paragonato ad un uomo avveduto che ha costruito la sua casa sopra la roccia."
"Abbi pietà di coloro che hanno paura di impugnare la penna, il pennello, lo strumento o l'attrezzo perché pensano che qualcuno lo abbia già fatto meglio di loro, e non si sentono degni di entrare nella possente magione dell'Arte. Ma abbi ancora più pietà di coloro che hanno impugnato la penna, il pennello, lo strumento o l'attrezzo, trasformando la loro ispirazione in una forma meschina di orgoglio nel sentirsi migliori degli altri. Perché costoro ignorano la tua legge che dice: "Non c'è niente di nascosto che debba essere scoperto, né di occulto che non debba essere conosciuto."
"Abbi pietà di coloro che mangiano, bevono e ingrassano, ma sono infelici e solitari nella loro pinguedine. Ma abbia ancora più pietà di coloro che digiunano, censurano, proibiscono e si sentono santi, e girano per le piazze predicando il tuo nome. Perché costoro ignorano al tua legge che dice "se io rendo testimonianza di me stesso, la mia testimonianza non è vera".
"Abbi pietà di coloro che temono la morte e ignorano i numerosi segni che hanno attraversato e le molteplici morti che hanno già vissuto, e sono infelici perché pensano che un giorno, tutto finirà. Ma abbi ancora più pietà di coloro che hanno già conosciuto le loro numerose morti, e che oggi si giudicano immortali. Perché costoro ignorano la tua legge che dice: Se uno non è nato di nuovo, non può vedere il regno di Dio."
"Abbi pietà di coloro che divengono schiavi del legame di seta dell'amore, e si reputano padroni di qualcuno, e provano gelosia, e si uccidono con il veleno, e si torturano perché non riescono a vedere che l'amore è mutevole come il vento e come tutte le cose. Ma abbi ancora più pietà di coloro che muoiono per la paura di amare, o rifiutano l'amore in nome di Amore Maggiore che non conoscono. Perché costoro ignorano la tua legge che dice "chi beve l'acqua che io gli darò non avrà mai più sete"
"Abbi pietà di coloro che riducono l'universo in una spiegazione, Dio a una pozione magica, e l'uomo ad un essere con necessità fondamentali che hanno bisogno di venir soddisfatte, perché queste persone non udranno mai la Musica delle Sfere. Ma abbi ancora più pietà di coloro che possiedono la fede cieca, e nei laboratori trasformano il mercurio in oro, e sono circondati da libri sui segreti dei Tarot e il potere delle Piramidi. Perché costoro ignorano la tua legge che dice: "Il regno dei cieli è per chi assomiglia ai bambini"
"Abbi pietà di coloro che non vedono nessuno oltre a se stessi, e per i quali gli altri sono uno scenario sfocato e distante come quando percorrono la strada nelle loro automobili, e si rinchiudono negli uffici con l'aria condizionata all'ultimo piano, e soffrono in silenzio la solitudine del potere. Ma abbi ancora più pietà di coloro che hanno offerto tutto, e sono premurosi e cercano di vincere il Male soltanto con l'Amore perché costoro ignorano la tua legge che dice: "chi non ha la spada venda il mantello e ne compri una".
"Abbi pietà, signore, di noi che cerchiamo e osiamo impugnare la spada che ci hai promesso e che siamo un popolo santo e peccatore sparpagliato sulla terra. Perché non riconosciamo noi stessi e molte volte pensiamo di essere vestiti mentre siamo nudi, di aver commesso un crimine quando in realtà abbiamo salvato qualcuno. Non dimenticarti, nella tua pietà, di tutti noi che leviamo la  spada ora con la mano di un angelo ora con la mano di un demonio: esse stringono la medesima impugnatura. Perché siamo al mondo, continuiamo ad essere nel mondo e abbiamo bisogno di te. Abbiamo sempre bisogno della tua legge che dice: "Quando vi mandai senza borsa, senza bisaccia e senza calzari, vi è forse mancato qualcosa?"
Petrus aveva terminato la preghiera. C'era silenzio intorno. La mia guida guardava fissamente il campo di grano davanti a noi. [Il cammino di Santiago, P. Coelho 1987]