venerdì 20 dicembre 2013

Un pizzico di magia

Le tre piume

Grullo si addentra nelle tenebre della terra attraverso una botola, questo rappresenta una discesa agli inferi. Grullo intraprende questo viaggio nell'interiorità mentre i suoi due fratelli vagano alla superficie. Non sembra azzardato interpretarlo come la storia di Grullo che si accinge ad esplorare la sua mente inconscia. L'inconscio ci parla per immagini piuttosto che a parole, ed è semplice che questo venga confrontato con le produzioni dell'intelletto. Ciò che trova all'interno è un animale che permette a Grullo di avere la meglio, grazie al sul suo affidarsi alla natura animale, alle semplici e primitive forze all'interno di noi. Come è consueto in queste storie gli altri fratelli non sono minimamente differenziati. La loro mancanza di differenziazione è essenziale perché simboleggia il fatto che le loro personalità sono indifferenziate. I fratelli agiscono basandosi solo su un Io molto svuotato, giacché è separato dalla fonte potenziale della sua forza e ricchezza, L'Es. Ma essi sono anche privi di Super-Io; non hanno il minimo senso delle cose più elevate, e si accontentano d'imboccare la via facile
I due fratelli che vagarono alla superficie trovarono solo cose grossolane nonostante tutta la loro presunta intelligenza: ciò suggerisce le limitazioni di un intelletto che non si basi sui poteri dell'inconscio ivi inclusi sia L'Es che il Super-io e non ne sia sostenuto.
Il tappeto, come l'anello, portati a casa da Grullo non sono oggetti ordinari ma capolavori eccezionali. L'inconscio è la fonte dell'arte, la sorgente da cui essa scaturisce, che sono le idee del Super io a plasmarla, e sono le forze dell'io che interpretano le idee inconsce e conosce che entrano nella creazione di un opera d'arte. Così in un certo senso, questi oggetti artistici significano l'integrazione della personalità. Nessun bambino che rifletta sulla storia può fare a meno di chiedersi perché i fratelli dopo la prima prova fallita non si impegnarono di più la seconda e la terza volta. Ma ben presto il bambino si rende conto che anche questi fratelli, per quanto intelligenti, non erano capaci di trarre ammaestramento dall'esperienza. Separati dal loro inconscio non erano in grado di evolversi.
Nella fiaba sono necessarie diverse prove. Familiarizzarsi con l'inconscio, ciò con le forze oscure all'interno di noi sotto la superficie è necessario ma non sufficiente. Bisogna aggiungervi l'azione fondata su tali intuizioni, noi dobbiamo affinare e sublimare il contenuto dell'inconscio. E' per questo che, la terza e ultima volta, lo stesso Grullo deve scegliere uno dei piccoli rospi che sotto le sue mani si trasforma in una splendida ragazza. E' in ultima analisi l'amore che trasforma anche le cose più brutte in qualcosa di meraviglioso. Siamo soltanto noi stessi che possiamo tramutare il primordiale rozzo e più mediocre contenuto del nostro inconscio – rape, topi, rospi, nei più raffinati prodotti della nostra mente.
Infine la fiaba suggerisce che limitarsi a ripetere le stesse cose con qualche variazione non + sufficiente. La capacità di saltare attraverso il cerchio è una questione di talento: dipende da una dote personale e si differenzia da quello che un individuo può trovare con un'attiva ricerca. Limitarsi a sviluppare la propria personalità in tuttala usa ricchezza, o rendere le fonti vitali dell'inconscio accessibili all'io non sufficiente, bisogna anche essere capaci di servirsi della propria abilità in modo accorto.

Le ultimissime parole della fiaba contrappongono la saggezza con cui Grullo regna all'intelligenza dei due fratelli con cui si apri la storia. L'intelligenza può essere un dono di natura; è intelletto indipendentemente dal carattere. La saggezza è la conseguenza della profondità interiore, di esperienze pregnanti che hanno arricchito la vita della persona: un riflesso di personalità ricca e bene integrata. [Il mondo incantato, Bruno Bettelheim]

martedì 17 dicembre 2013

La fiaba dell'Io, l'Es e del Super-Io

L'attribuzione ai processi interiori di nomi distinti - Es, Io e Super-io - fece di loro delle entità, ciascuna con le proprie particolarità. Quando consideriamo le connotazioni emotive che questi astratti termini di psicanalisi hanno per la maggior parte delle persone che li usano, cominciamo a vedere che queste astrazioni non sono poi così diverse dalle personificazioni della fiaba.  Lo stesso Freud non trovò un modo migliore per aiutare a dare un senso all'incredibile mescolanza di contraddizioni che coesistono nella nostra mente di quello di creare dei simboli per aspetti isolati della personalità. Li chiamo Es, io e Super-io. Se anche noi, come adulti dobbiamo far ricorso alla creazione di entità distinte per dare un certo ordine razionale al caos delle nostre esperienze interiori, a maggior ragione devono farlo i bambini. Oggigiorno noi adulti ci serviamo di questi concetti per separare fra loro le nostre esperienze interiori e per affermare meglio il loro significato e le loro implicazioni. Purtroppo così facendo abbiamo perso qualcosa che è implicito nelle fiabe: la percezione che queste esteriorizzazioni sono fittizie, utili soltanto per l'individuazione e la comprensione di processi mentali. [Il mondo incantato, Bruno Bettelheim]

sabato 14 dicembre 2013

Grammatica della fantasia

Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla sua superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. Oggetti che se ne stavano ciascuno per conto proprio, nella sua pace o nel suo sonno, sono come richiamati in vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto tra loro. Altri movimenti invisibili si propagano in profondità, in tutte le direzioni, mentre il sasso precipita smovendo alghe, spaventando pesci, causando sempre nuove agitazioni molecolari. Quando poi tocca il fondo, sommuove la fanghiglia, urta gli oggetti che vi giacevano dimenticati, alcuni dei quali ora vengono dissepolti, altri ricoperti a turno dalla sabbia. Innumerevoli eventi, o microeventi, si succedono in un tempo brevissimo. Forse nemmeno ad aver tempo e voglia si potrebbero registrare tutti, senza omissioni.
Non diversamente una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie o di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare costruire e distruggere. Rodari G., “Grammatica della fantasia”

martedì 3 settembre 2013

Costruzioni in analisi

Come è noto, l’intento del lavoro analitico è di portare il paziente a togliere [aufheben] le rimozioni – intese nel senso più ampio relative al suo sviluppo primario, per surrogarle con reazioni che dovrebbero corrispondere a uno stato di maturità psichica. A tale scopo il paziente deve ricordarsi determinate esperienze, per il momento dimenticate, e i moti affettivi da loro suscitati. Quali materiali ci mette a disposizione, utilizzando i quali, possiamo condurlo sulla via del recupero dei ricordi perduti? Diverse cose: frammenti di tali ricordi nei sogni, in sé di incomparabile valore, ma tuttavia di regola fortemente distorti attraverso tutti i fattori che partecipano alla formazione del sogno; idee improvvise, prodotte abbandonandosi alla «libera associazione», dove possiamo rinvenire allusioni alle esperienze rimosse, così come i derivati dagli impulsi affettivi repressi e delle reazioni contro di essi; infine, indizi (Andeutungen) di ripetizioni di affetti appartenenti al rimosso in azioni importanti o di scarso rilievo, interne o esterne alla situazione analitica. Noi abbiamo sperimentato che la relazione di transfert che si stabilisce verso l'analista è particolarmente adatta a favorire il ritorno di tali rapporti affettivi. L'analista non ha sperimentato né rimosso nulla di quanto è qui in questione. Il suo compito non può essere di ricordare qualcosa. Qual è dunque il suo compito? Egli deve indovinare ciò che è stato dimenticato dalle tracce che ha lasciato dietro di sé, o, più correttamente, deve costruirlo. Come,quando e in quale maniera egli partecipa la sua costruzione all'analizzante, stabilisce di fatto il legame tra le due parti del lavoro analitico, tra la sua parte e quella dell'analizzante. L'analista termina un pezzo di costruzione, lo comunica all'analizzante in modo che agisca su di lui. Poi, a partire dal materiale nuovamente affluito, ne costruisce un altro, quindi procede allo stesso modo nello scambio [Abwechslung] sino alla fine. Se nelle presentazioni [Darstellungen] della tecnica analitica si sente parlare poco di “costruzioni”, la ragione è che al loro posto si parla di “interpretazioni” [Deutungen, più propriamente: “spiegazioni”] e dei loro effetti. Ma ritengo che “costruzione” sia la definizione più appropriata. Interpretazione si riferisce a ciò che ci proponiamo di fare con un singolo elemento del materiale, un'idea venuta in mente, un atto mancato. È, invece, costruzione presentare all'analizzante una parte dimenticata della sua preistoria press’a poco così: «Fino all’ennesimo anno lei si è comportato come l'unico e incontrastato possessore di sua madre; poi è venuto un secondo bambino e con lui una grave disillusione. Sua madre l'ha abbandonata per un po', e in seguito non si è più dedicata esclusivamente a Lei. I suoi sentimenti nei confronti della madre sono diventati ambivalenti e suo padre ha acquisito per Lei un nuovo significato (Bedeutung)» e così via.
In questo saggio tutta la nostra attenzione è rivolta esclusivamente al lavoro preliminare di costruzione.
E qui immediatamente sorge il problema di quali garanzie abbiamo, lavorando a queste costruzioni, che non stiamo sbagliando e che non ci stiamo giocando il successo del trattamento attraverso la presentazione di una costruzione errata. Dobbiamo prestare orecchio a una confortante notizia proveniente dall'esperienza analitica. Essa ci insegna infatti che non deriva alcun danno se una volta ci sbagliamo e se abbiamo esposto al paziente una costruzione errata come probabile verità storica. Ciò significa, naturalmente, una perdita di tempo, e chi sa di raccontare al paziente sempre soltanto combinazioni sbagliate non gli far"à certo una buona impressione e ciò non lo porterà molto lontano nel suo trattamento, ma un unico errore di questo tipo è innocuo. In questi casi capita per lo più che il paziente, rimane come se non fosse nemmeno toccato dalla costruzione e non reagisce a questo né con il si né con il no. Questo può forse essere soltanto un differimento della sua reazione; ma se le cose rimangono così, dobbiamo concludere che ci siamo sbagliati e lo riconosceremo con il paziente all'occasione più opportuna, senza per questo perdere la nostra autorità. È vero che
noi non accettiamo un «no» dell'analizzante come assolutamente valido, ma allo stesso modo valutiamo anche il suo «sì». È assolutamente fuori luogo scusarci perché in ogni caso interpretiamo (umdeuten) la sua manifestazione come conferma. In realtà, non è cosí semplice e non ci rendiamo cosí facile decidere.
Risulta, dunque, che le manifestazioni dirette del paziente, successive alla comunicazione della costruzione, non stanno né pro né contro la possibilità che abbiamo indovinato oppure no. Tanto più interessante è, allora, l’esistenza di forme indirette di conferma assolutamente attendibili. Una di queste è una forma discorsiva che, con parole poco diverse, ci capita di sentire spesso dalle persone più disparate, e che suona cosí: «Non l’ho mai (non l'avrei mai) pensato». Affermazione che può essere tradotta senza esitazioni in: «Sì, in questo caso, Lei ha colto giustamente l'inconscio».
La conferma indiretta attraverso associazioni che si adattano al contenuto della costruzione, portando con sé un simile anche, fornisce a nostro giudizio una base valida per prognosticare se la costruzione sarà confermata nel corso dell’analisi. Particolarmente significativo è anche il caso in cui la conferma si insinua nella contraddizione diretta con l’aiuto di un atto mancato. Se la costruzione è falsa, nel paziente non cambia nulla; se è giusta o porta ad approssimarsi alla verità, il paziente reagisce con peggioramento inequivocabile dei sintomi e delle condizioni generali.
Voglio concludere questa breve comunicazione con alcune osservazioni che aprono una prospettiva più ampia. In alcune analisi mi è capitato che la comunicazione di una costruzione chiaramente appropriata evidenziasse negli analizzanti un fenomeno sorprendente e da principio incomprensibile. Si presentavano loro vividi ricordi, da loro stessi designati come «sovrasignifìcanti», senza tuttavia ricordare nulla dell'avvenimento, che costituiva il contenuto della costruzione, ma solo dettagli molto vicini a questo stesso contenuto, per esempio, con straordinaria chiarezza i visi delle persone ivi nominate o gli ambienti in cui qualcosa di simile poteva essere accaduto, o, un poco oltre nella costruzione, le suppellettili di questi ambienti, di cui naturalmente la costruzione non poteva essere stata a conoscenza. Ciò avveniva anche nei sogni immediatamente dopo la comunicazione della costruzione e nello stato di veglia nei sogni a occhi aperti (in phantasieartigen Zustände). A questi ricordi non si connetteva nient’altro. Andavano presi ovviamente come il prodotto di un compromesso. La spinta del rimosso, attivata dalla comunicazione della costruzione, avrebbe voluto portare alla coscienza quelle tracce mnestiche così significative, ma la resistenza era riuscita, non tanto ad arrestare il movimento, quanto a spostarlo su oggetti vicini ma secondari. [Costruzioni in analisi, Freud 1937]

mercoledì 26 giugno 2013

Oltre al rumore dell'altro 2/2

La comunicazione, in quanto «fatto relazionale irriducibile» viene ad essere considerata la forma primaria di riconoscimento tra gli uomini e il luogo di fondazione dell'intersoggettività in cui si esprime la reciprocità sottesa ad ogni relazione umana. Il lavoro di cooperazione verbale, che ne costituisce gran parte della fenomenologia, è una vera e propria attività congiunta, tale per cui gli enunciati di un interlocutore si intrecciano con gli enunciati dell'altro.
In una prospettiva di ‘interazione comunicativa’ attorno al circuito che lega i due interlocutori viene a crearsi un sistema d'ordine superiore
Le parole pronunciate da ciascuno dei due parlanti sono indirizzate sia a sé, sia all'altro, dando luogo, per così dire, ad un fenomeno di ‘doppio ascolto’. Significare e comprendere non sono più azioni indipendenti; detto in altri termini non si significa senza comprendere. Un parlante ha infatti bisogno di conoscere come l'altro ha ricevuto il suo messaggio per sapere cosa ne è stato, attraverso una sorta di retro-comprensione. Analogamente, ciascuno riceve - almeno in parte, precisa Jacques - ciò che avrà potuto emettere: ‘ciò che tu comprendi è ciò che io sono riuscito a significare’.
Ci troviamo quindi di fronte ad un sistema di interazione comunicativa, caratterizzato dalla sottomissione dei due parlanti al “funzionamento auto-organizzato” della diade che viene a costituirsi a seguito del loro accoppiamento relazionale. I parlanti si sottomettono quindi al funzionamento di del sistema che costituisce lo spazio interlocutorio comune, lo “spazio logico dell'interlocuzione” (Jacques,1985).

In questa prospettiva, ogni evento comunicativo viene ad essere un incontro dialettico tra due processi, un processo di espressione in cui un Io-comunicante si rivolge ad un Tu-destinatario - enunciatario ed un processo di interpretazione dove un Tu-interpretante si costruisce, a sua volta, un'immagine di Io-enunciatore , incrociandosi in un sottile gioco di attese e riconoscimenti reciproci. Sulla base di queste premesse, la comunicazione tra due interlocutori diviene di fatto uno scambio tra quattro personaggi. Dalla parte dell'io c'è un soggetto comunicante che agisce e si esprime ma vi è anche un Io-enunciatore che si ‘mette in scena’ attraverso le proprie parole e che attraverso di esse esprime le proprie intenzioni. Tutto questo, dal punto di vista del Tu, rappresenta l'immagine costruita dell'intenzionalità dell'Io-comunicante, realizzata appunto nell'atto di espressione. Dalla parte del Tu troviamo invece il Tu-destinatario-enunciatario, vale a dire l'interlocutore costruito dall'Io come proprio destinatario-ideale, in sintonia con l'atto di enunciazione compiuto, ma vi è anche il Tu-interpretante, un soggetto che agisce indipendentemente dall'immagine costruita dall'Io, in rapporto alla quale comunque si definisce confermandola o rifiutandola. L'ermeneutica dell'Io-enunciatore e delle sue intenzioni proposta dal Tu-interpretante può evidentemente divergere da quanto l'Io stesso progetta e sperimenta. Questo sdoppiamento dell'Io e del Tu, pur non essendo di immediata intuizione, di fatto aiuta a spiegare in termini cooperativi molte delle difficoltà che si incontrano di continuo nella comunicazione in rapporto allo scarto tra l'attività del locutore e quella dell'allocutario, tra intenzione e interpretazione, tra produzione e ricezione. E ciò costituisce un notevole contributo alla comprensione dell'attività interpretativa - di fatto il motore principale dell'interlocuzione - compiuta ad ogni turno di parola sui piani cognitivo e psicosociale.

Oltre al rumore dell'altro 1/2


Anzieu e Martin cercano di dare conto delle interpretazioni erronee, delle incomprensioni paradossali, dei controsensi più flagranti, dei conflitti più evidenti presenti nella comunicazione descrivendola  come un rapporto tra due o più personalità impegnate in una situazione comune e che discutono tra loro a proposito di significati.  Il processo comunicativo viene ad essere concepito come l'incontro di due o più ‘campi di coscienza’ che appartengono a soggetti caratterizzati da una precisa identità psicosociale. Ciò che interessa ad Anzieu e Martin è la descrizione della successione di filtri che si frappongono tra l'intenzioni e la ricezione dei partecipanti. Il loro profilo bio-psico-sociologico è considerato una variabile interveniente nella spiegazione dei vincoli che caratterizzano i loro comportamenti comunicativi, gli uomini non comunicano unicamente una certa quantità di informazioni, ma scambiano significati, la comunicazione risulta facilitata se questi condividono lo stesso universo simbolico e gli stessi quadri di riferimento che, con il sistema valoriale costituiscono veri e propri ‘filtri’ rispetto al flusso della comunicazione stessa.

Il linguaggio non viene più considerato come un mezzo di trasferimento di informazioni da una mente ad un'altra, bensì come “dimensione essenziale della cultura in cui si iscrivono la maggior parte dei valori e delle rappresentazioni sociali su cui si fondano gli scambi e le pratiche collettive”. Sempre meno ci si interessa ai meccanismi di trasmissione di informazioni, mentre cresce l'attenzione ai processi di elaborazione e condivisione dei significati. La comunicazione viene ad assumere così un ruolo di primaria importanza per la comprensione del processo di fondazione dei legami sociali. [Dalla comunicazione alla conversazione, Galimberti 1993]

lunedì 24 giugno 2013

Verso i sistemi di interazione comunicativa

“Quando mi dici qualcosa, io verifico di aver compreso il tuo messaggio ripetendolo con parole mie, perché se lo ripetessi con le tue parole tu potresti dubitare che io abbia capito. Ma se uso le mie parole il risultato è che cambio il tuo significato, anche se solo di poco… La conversazione è come giocare a tennis con una palla fatta di gomma semiliquida, che ha una forma diversa ogni volta che attraversa la rete…” Dalla comunicazione alla conversazione

mercoledì 19 giugno 2013

Se una para-democrazia si fa dogma (Appunti sulla democrazia)

A segnare la corrente crisi dell’idea e della pratica di democrazia, concorre in maniera ancora più determinate un altro fenomeno, che qui chiamerò: “rumore”. Se vogliamo fare della democrazia un regime nel quale possa avvenire un arricchente confronto pluralistico tra gli individui non possiamo ignorare il fatto che a dare impulso a un simile regime non è tanto la quantità, bensì la qualità di tale confronto pluralistico. C'è una determinante aggiunta: questo rumore non è affatto casuale o neutrale, al contrario, esso è strumento di (ri)produzione e mantenimento di un determinato tipo di controllo sociale, che in parte è direttamente amministrato da specifici interessi politici ed economici e in parte vive ormai di vita propria, tramite le logiche efficientiste e calcolanti della razionalità strumentale, che la tecnologia estremizza e divulga. Dalla rimozione del rumore, ne va quindi della possibilità di un’autentica democrazia (direi anche, dell’autenticità in toto). I problemi di oggi, come, appunto, il terribile fenomeno del rumore tramite una proliferazione indiscriminata dei discorsi. E il tutto, paradossalmente, spacciando questa operazione come il massimo della libertà (l'attuale articolazione politica di questo fenomeno è la cosiddetta web-democrazia diretta), al punto tale che chi ne propone una qualsiasi forma di regola(menta)zione, calibrazione viene subito etichettato come un censore oscurantista. Il mondo si trasforma così in rumore, oscurando i discorsi di valore e producendo di fatto una forma di censura (paradossalmente definita come libertà) molto più efficace della precedente, ingenuamente basata sul silenziamento diretto. Viene intaccata la possibilità di "riconoscimento" della differenza di suono fra un discorso significativo ed uno che non lo è: entrambi appaiono come elementi simili del/nel mare magnum. Mi sembra infatti che sia giunto il tempo di ragionare senza paura attorno alla costituzione di dispositivi selettivi, direi addirittura elitari, che possano filtrare dalla quantità la qualità, senza per questo abdicare al progetto illuministico del sapere aude. Solo così il sapere aude nel senso che, mantenendosi essenzialmente e radicalmente distinto dal "rumore", contribuisce a prendere posizioni di qualità. [Sollazzo, 2013 ]

venerdì 7 giugno 2013

Il sofà sui binari

Voglio tornare da Ermelinda. Questo è il mio primo e unico desiderio. Lei non mi farebbe pesare la mia anormalità, lei starebbe ad ascoltare i miei vaneggiamenti senza ribattere e mi amerebbe nonostante e a dispetto di me stesso, lei desidera con tutta se stessa, e mi ha dato un nome... con lei avrei una vita normale, suppongo, con o senza passato... ma questo certo, a Severino non posso dirlo, non saprebbe immaginarlo. Accetterebbe che un matto gli parlasse di folletti, di gnomi e di esseri dalla pelle lattiginosa e iridescente, di fantasmi molesti, ma per il resto guarderà sempre solo il suo orizzonte assolutamente limitato, che non oltrepassa le quattro mura della clinica, la nebbia di Chissàdove, senza chiedersi quale è quel confine che nella nebbia non si riesce  a scorgere. Non intuisce che la stanza nella quale ci troviamo e la nostra condizione in questo momento sono l'ultimo avamposto prima del nulla, dell'oblio della coscienza? della totale perdita della ragione? E che, per scrutare nel nulla, si deve essere disposti a perdere qualcosa delle nostre certezze, per indagare sull'orizzonte in cui le nebbie ci impediscono di guardare si deve imparare a camminare a occhi chiusi sul prato e abituarsi all'ubiquità del confine... si, caro Severino, questo non lo vede il tuo sguardo di un uomo "normale"? In realtà credo che tu soffra di un'amnesia ben peggiore della mia: hai dimenticato le domande, al contrario di me che ho smarrito le risposte. Anche i sani hanno perso qualcosa, dunque, si portano dietro una valigia chiusa nella quale non osano guardare, dove ci sono tutte le domande senza risposta, e vivono privi di salutari angosce; ecco, scacco al re, Severino: questo è il confine. [...] perché agli uomini non è dato di scrutare fuori dal sogno, né agli svegli vedere l'orizzonte avvolto nella nebbia dei sogni. [Il sofà sui binari, Davinio 2013]

giovedì 6 giugno 2013

Dall'orda paterna al clan fraterno

Ricollegando la concezione del totem suggerita dalla psicoanalisi con il banchetto totemico e con l'ipotesi darwiniana sullo stato prmitivo della società umana si può acquisire una più profonda comprensione e cogliere l'intuizione di un'ipotesi che può sembrare fantastica, ma che presenta il vantaggio di realizzare un'inaspettata unità tra una serie di fenomeni isolati. Un padre violento, geloso, che tiene per sé tutte le femmine e scaccia i suoi figli man mano che crescono ecco ciò che la teoria del Darwin suppone. Questo stato primitivo della società non è mai stato oggetto di analisi. L'organizzazione più primitiva di cui siamo a conoscenza, e che ancora attualmente esiste in certe tribù, consiste in una comunità di uomini che godono di uguali diritti e sono sottomessi alle limitazioni del sistema totemico.

Si può supporre che per arrivare a questo un giorno i fratelli scacciati si sono riuniti, hanno ucciso il padre e mangiato il padre, ponendo fine all'orda paterna. Una volta riuniti, si sono fatti audaci e sono stati in grado di realizzare ciò che ciascuno di loro, isolatamente, sarebbe stato incapace di fare. E' possibile che un nuovo processo della civilizzazione, l'invenzione di una nuova arma, abbia dato loro la coscienza della loro superiorità. Che essi abbiano mangiato il cadavere del padre non ci stupisce dato che si tratta di primitivi cannibali. Il violento progenitore costituiva certamente il modello invidiato e temuto di ciascuno dei membri di questa associazione fraterna. Essi realizzavano, con l'atto del pasto, la loro identificazione con lui, ciascuno si appropriava di parte della sua forza. Il banchetto totemico, che è forse la prima festa dell'umanità sarebbe la riproduzione e la commemorazione di questa azione memorabile e criminale che ha costituito il punto di partenza per tante cose: organizzazioni sociali, limitazioni morali e religioni. 

Per trovare attendibili queste conseguenze a prescindere dalle loro premesse, è sufficiente riconoscere che il gruppo dei fratelli ribelli fosse animato, nei confronti del padre dai sentimenti contraddittori che, come sappiamo, costituiscono l'ambivalente contenuto del complesso del padre. Essi odiavano il padre che con tanta violenza, si opponeva ai loro desideri e alle loro esigenze sessuali e tuttavia l'amavano e l'ammiravano. Dopo averlo eliminato, dopo aver placato il loro odio e realizzata la propria identificazione con lui essi dovettero dar sfogo agli impulsi affettuosi che erano stati sopraffatti. Lo fecero sotto forma di pentimento; provavano un senso di colpa che in questo caso coincide col rimorso sentito collettivamente. Il morto divenne più potente del vivo; tutte le cose che anche oggi ritroviamo nelle vicende umane. Ciò che prima il padre aveva impedito con la sua presenza, i figli ora se lo proibivano da soli, nella situazione psichica nota in psicoanalisi come "ubbidienza postuma". Essi rinnegarono la loro azione, proibendo l'uccisione del totem, sostituto del padre, e rinunciarono a goderne i frutti, rifiutando di aver rapporti sessuali con le donne che ora erano libere. Così il rimorso filiale, ha generato i due tabù fondamentali del totemismo che coincidono perciò con i due desideri rimossi del complesso di Edipo. [Totem e Tabù, Freud 1913]

lunedì 15 aprile 2013

"Sentirete, Nasten'ka, sentirete che in questi angoli vivono strane persone - sognatori. Un sognatore - se è necessaria una sua definizione precisa - non è una persona, ma, sapete, un essere di genere neutro. Si stabilisce il più delle volte in qualche angolo inaccessibile, come se ci si nascondesse perfino dalla luce del giorno, e quando poi si rifugia in casa, allora si radica al suo angolo come una lumaca, o, almeno, è molto simile in questo atteggiamento a quell'interessante animale che è animale e casa insieme, che si chiama tartaruga. Cosa ne pensate, perché ama tanto le sue quattro parti pitturate immancabilmente di colore verde, annerite, triste e intollerabilmente affumicate? Per quale motivo questo buffo signore, quando viene a trovarlo qualcuno dei suoi rari conoscenti (e finisce che tutti suoi conoscenti spariscono), per quale motivo questa buffa persona lo accoglie così confuso, così cambiato in volto e con un tale turbamento come se avesse appena commesso un delitto tra le sue quattro mura, come se avesse fabbricato banconote false, o poesie da mandare a una rivista con una lettera anonima nella quale si dichiara che il vero poeta è già morto e che un suo amico ritiene sacro dovere pubblicare i suoi versi? Perché Nasten'ka, ditemi, la conversazione di quei due interlocutori procede tanto a fatica? Perché non esce né una risata, né una qualche paroletta vivace dalla bocca dell'interdetto amico giunto all'improvviso che in altre occasioni ama molto le la risata, e la paroletta vivace, e i discorsi sul gentil sesso, e altri argomenti ameni? Perché mai, infine questo amico, verosimilmente conoscenza recente, e alla prima visita, - perché in questo caso non ce ne sarà una second e l'amico non tornerà, - perché anche l'amico è tanto confuso, tanto irrigidito, nonostante tuta la sua sagacia (ammesso che ne abbia), guardando il viso sconvolto del padrone di casa, il quale a sua volta ha già fatto in tempo a perdersi e a smarrirsi dopo titanici ma vani sforzi di distendere e vivacizzare la conversazione, di mostrare anche da parte sua la conoscenza del vivere mondano, di intavolare lui pure un discorso sul gentil sesso e almeno per una simile docilità di piacere al malcapitato che per errore è venuto a trovarlo? Perché, infine, l'ospite improvvisamente afferra il cappello e se ne va alla svelta, dopo essersi subitamente ricordato di un affare urgentissimo che non è mai esistito, e libera a stento la propria mano dalle calorose strette del padrone di casa, il quale tenta in ogni modo di mostrare il proprio pentimento e di riconquistare il terreno perduto? [Le notti bianche, Dostoevskij, 1848]

domenica 10 marzo 2013

Il prestigio del discorso vacuo ovverosia del linguaggio senza pensiero.

"Una delle meraviglie del mondo, forse la meraviglia delle meraviglie, è la facoltà da parte degli uomini di dire quello che non capiscono, come se lo capissero, di credere che essi lo pensano quando non fanno altro che dirselo"


Mosconi ha trovato un test per identificare i discorsi vacui, ossia manipolarne la struttura cambiando di posto il 25% dei sostantivi, uno ogni 4, facendo slittare il precedente nella posizione del successivo, la prima frase viene mantenuta uguale all'originale. Sottopose così diversi testi a studenti universitari, quasi nessuno si accorse che uno dei due testi era privo di significato, e quando gli si richiese di riassumerli, riscontrò come i riassunti del testo modificato erano generalmente simili e basati su luoghi comuni. E' il luogo comune infatti che gli fornisce l'illusione di capire e da la possibilità al soggetto una volta indotto ad esplicitare ciò che ha capito di produrre a sua volta un discorso. [Elogio dell'oscurità e della chiarezza, Baldini M., 2004].