martedì 18 dicembre 2012

Il disagio della civiltà

Ci chiediamo quindi che cosa attraverso il loro comportamento gli uomini ci facciano riconoscere come scopo della loro vita. Sbagliare la risposta è quasi impossibile, vogliono diventare e rimanere felici. Questo desiderio ha due facce, una meta positiva e una negativa: mira da un lato all'assenza di dolore e del dispiacere, dall'altro all'accoglimento di sentimenti intensi di piacere. Il programma del principio di piacere stabilisce lo scopo della vita ma è in conflitto tanto con il macrocosmo quanto con il microcosmo. Ed è così assolutamente irrealizzabile, tutti gli ordinamenti dell'universo si oppongono ad esso e potremmo dire che nel piano della creazione non è incluso l'intento che l'uomo sia "felice".
Qualsiasi perdurare della situazione agognata dal principio di piacere produce soltanto un moderato sentimento di benessere, siamo così fatti da poter godere intensamente del solo contrasto, ma soltanto assai poco di uno stato di cose in quanto tale. Le nostre possibilità di essere felici risultano quindi limitate già dalla nostra costituzione. Provare infelicità è assai meno difficile. La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali che sono il dolore e l'angoscia, dal mondo esterno che contro di noi può infierire con strapoteri spietati e infine dalle nostre relazioni con gli altri uomini.
Nessuna meraviglia se sotto la pressione di queste possibilità di soffrire gli uomini sogliono ridurre la loro pretesa di felicità cosi anche lo stesso principio di piacere si trasformò nel più modesto principio di realtà, tanto che ci sentiamo felici per il solo fatto di scappare all'infelicità.
La volontaria solitudine, il distanziarsi dagli altri sono il riparo più immediato contro il tormento che possono arrecarci le relazioni umane. la felicità conseguibile in al modo è ovviamente quella della quiete. C'è naturalmente un altro modo migliore: con l'aiuto della tecnica, guidata dalla scienza, passare in quanto membri della comunità umana ad aggredire la natura ed assoggettarla al volere umano. Si lavora allora con tutti per il bene di tutti. I metodi più interessanti di prevenzione del dolore sono però quelli che cercano d'influire sullo stesso organismo.
Il più rozzo ma anche il più efficace metodo per influire sull'organismo è quello chimico: l'intossicazione. Esistono sostanze estranee al corpo la cui presenza nel sangue e nei tessuti ci procura immediatamente sensazione piacevoli alterando in pari tempo le condizioni della nostra vita senziente al punto di renderci incapaci di accogliere moti spiacevoli. E' noto però che questa caratteristica degli inebrianti ne costituisce in pari tempo il pericolo e la dannosità. Per colpa loro in talune circostanze si sciupano inutilmente grandi quantità di energia che potrebbero venir utilizzate per il miglioramento della sorte umana.
Il mondo esterno è causa di grave sofferenza quando ci fa stentare, ricusa di saziare i nostri bisogni, agendo quindi su tali moti pulsionali possiamo sperare di liberarci di parte della sofferenza. Questo tipo di difesa dal dolore non riguarda più l'apparato sensitivo e cerca di conseguire il dominio delle fonti interne dei bisogni. In forma estrema ciò accade allorché le pulsioni vengono mortificate secondo quanto insegna la saggezza orientale e viene attuato nella pratica dello Yoga. Ciò comporta tuttavia anche un'innegabile riduzione della possibilità di godimento.
Un'altra tecnica per sottrarsi al dolore ricorre agli spostamenti della libido, che il nostro apparato psichico consente e in virtù della quale la funzione dell'apparato acquista tanta duttilità. Si tratta di scambiare le mete pulsionali, a ciò presta il suo aiuto la sublimazione delle pulsioni. Si riesce così ad accrescere in misura sufficiente il piacere tratto dalle fonti del lavoro psichico e intellettuale. Un soddisfacimento del genere, la gioia ad esempio provata dall'artista nel creare o del ricercatore nel risolvere problemi e scoprire il vero ha una qualità particolare. La debolezza di questo metodo sta però nel fatto che non è applicabile generalmente e che è accessibile solo a pochi. Presuppone particolari disposizioni o doti, che non tutti hanno e inoltre suole fallire di fronte alla sofferenza che è nel nostro corpo. 
In altri casi la connessione con la realtà è allentata, otteniamo il soddisfacimento attraverso illusioni riconosciute come tali senza lasciarci turbare nel godimento dal divario che le separa dalla realtà. La religione da cui queste illusioni scaturiscono è quella della vita fantastica. Il primo posto fra queste soddisfazioni fantastiche è occupato dal godimento delle opere d'arte.
Più energicamente opera un altro procedimento, esso scorge nella realtà l'unico nemico quello che è la fonte di ogni male, quello con cui è impossibile vivere, con cui occorre troncare i rapporti. L'eremita volta le spalle a questo mondo, non vuole avere nulla a che fare con esso.
Ma si può fare di più, volerlo trasformare, costruendone al suo posto un altro cui le caratteristiche più intollerabili risultino eliminate e sostituite da altre conformi ai nostri desideri. Chi in una rivolta disperata imbocca tale cammino verso la felicità non ottiene di regola nulla, la realtà è troppo vigorosa per lui. Diventa un pazzo che non trova perlopiù nessuno che lo aiuti a perseguire il suo delirio.  [Il disagio della civiltà, Freud, 1929]

martedì 11 dicembre 2012

La felicità della conversazione

Ebbene, per la Conversazione, le transazioni verbali, lo scambio di parole, hanno due regole molto importanti: la prima è considerata una regola costitutiva e si enuncia con la questione del "Come se ne esce?", la seconda è considerata normativa ed è l'orientamento degli interventi del Conversazionalista secondo il criterio della felicità.
Per la chiacchiera non si pone quella che abbiamo dato come regola costitutiva e cioè il "come se ne esce", mentre per la comunicazione, soprattutto quella in ambito terapeutico, si pone soprattutto la questione del cambiamento che dovrebbe avvenire nelle persone.
Nel Conversazionalismo, la questione del "come se ne esce?" tende a risolversi applicando il criterio della regola normativa della felicità. Bisogna infatti sottolineare che nel Conversazionalismo ci si appassiona al tentativo che consenta agli interlocutori di condividere una conversazione felice.
Mi rendo conto che l'uso di una parola come felice potrebbe rendere problematico il discorso ed il Lettore potrebbe lasciarsi prendere da una folla di domande: ma di quale felicità vai parlando? dici della felicità del tuo paziente, di quella tua, di quella vostra? e poi, cosa intendi per felicità? e ancora, sei proprio sicuro che di una conversazione si possa dire felice?
Cercando di approfondire il concetto, ci si imbatte nella doppiezza della lingua: "felice" si dice di una mossa, di una formulazione, di un'espressione, ma si dice anche di una persona. La felicità può essere linguistica, ma anche psicologica. Occupandoci di conversazione, ci troviamo sul crinale tra due mondi, il mondo delle parole e il mondo delle cose, il mondo linguistico e il mondo extralinguistico. Non è che non ci interessi la felicità come emozione che gli interlocutori possono sentire, ma ci concentriamo sulla felicità come qualità della conversazione: qualità legata alla possibilità di sciogliere un problema della conversazione, per cui prima questa qualità era assente o più bassa, poi risulta essere presente o più alta.
Il "come se ne esce?" si mostra quindi come quell'insieme di interventi che uno degli interlocutori (il Conversazionalista) fa per incrementare la qualità conversazionale della felicità o per farne abbassare l'infelicità.
"... Sono soprattutto interessato a un buon andamento, a un andamento felice della conversazione. Evidentemente secondo criteri soggettivi miei, non potendo certo sapere qual è, per il mio interlocutore del momento, una buona conversazione, una conversazione felice. Mi piace anche registrare le conversazioni, le mie conversazioni. Alcune conversazioni registrate, solitamente quelle che mi sono apparse nel loro snodarsi poco felici o decisamente infelici, le riascolto o le trascrivo. Le studio attentamente, ne analizzo le sequenze, cerco di scoprire se e dove e in che modo una sequenza infelice è stata propiziata da un mio contributo infelice. Nelle successive conversazioni, poi, il ricordo delle conversazioni studiate, o passate, mi aiuta, credo almeno a volte, a evitare i contributi che mi sono sembrati propiziatori di conversazioni infelici, per privilegiare i contributi che mi sono sembrati, in conversazioni analoghe precedenti, propiziatori di conversazioni felici" (Introduzione al conversazionalismo, Antonio Minvervino) 

sabato 14 luglio 2012

La sintassi della paranoia

"A questo punto, si potrebbe pensare che una proposizione formata di tre parole, quali "Io lo amo", possa essere contraddetta in tre modi diversi. Le idee deliranti di gelosia contraddicono il soggetto, quelle di persecuzione contraddicono il verbo e l'erotomania contraddice l'oggetto. Ma in realtà è possibile un quarto genere di contraddizione, quello cioè che respinge tutto il complesso della proposizione: "Io non amo affatto, non amo nessuno". Siccome però, la libido deve pur rivolgersi a qualche cosa, questa affermazione sembra essere l'equivalente psicologico della proposizione: "Amo solo me stesso". Questo genere di contraddizione darebbe luogo alla megalomania, considerabile come un'ipervalutazione sessuale dell'Io che può in tal modo estromettere quell'ipervalutazione dell'oggetto d'amore che già ci è nota. [...] Coloro che non si sono completamente svincolati dallo stadio del narcisismo, vale a dire hanno su questo punto una fissazione, che può diventare una predisposizione per una successiva malattia, sono esposti al pericolo che un impeto di libido particolarmente intenso, non riuscendo a trovare altro sfogo, conduca alla sessualizzazione delle pulsioni sociali, con la conseguente perdita della sublimazione, realizzata nel corso dell'evoluzione. Le nostre analisi ci rivelano che i paranoidi lottano per difendersi da tale sessualizzazione delle loro cariche psichiche istintuali sociali, per cui siamo indotti a supporre che il punto di minore resistenza del loro sviluppo debba trovarsi negli stadi dell'autoerotismo, del narcisismo e dell'omosessualità, stadi nei quali si dovrà trovare anche la predisposizione alla malattia, predisposizione che, forse, potrebbe essere definita con maggiore esattezza. Analoga disposizione dovrebbe essere riconsociuta anche nei pazienti affetti da dementia precox  o schizofrenia." [Il caso di Schreber. Osserazioni psicoanalitiche sul resoconto autobiografico di un caso di paranoia, Freud, 1911]

martedì 24 aprile 2012

La lingua schizofrenica

[...]Infatti scrivevo in "lingua" cioè, nel mio linguaggio segreto, usando espressioni e parole che sorgevano improvvisamente in me o che io stessa costruivo; poiché non mi sarei mai sentita in diritto di scrivere con parole vere. In questo caso la Regina avrebbe avuto il diritto di punirmi, poiché le lamentele che le indirizzavo erano accusatrici e ostili. Quando scrivevo in "lingua" mi indirizzavo alla vera Mamma, alla Mamma delle mele che amavo e che mi amava. Ma la vera mamma non poteva comprendere, poiché la Regina onnipotente e temibile l'aveva completamente sostituita. [...] Ebbi ancora crisi di colpevolezza; in quei momenti il mio dolore morale era infinito e piangevo per ore gridando "Raite, raite, raite, was habe ich gemacht?". Esprimevo spesso le mie lamentele in "lingua", usavo cioè parole incomprensibili, di cui alcune si ripetevano continuamente, come: "ichtiou, gao, itivarè gibastou, Ovèdè, ecc.". Non mi sforzavo ad inventarle; venivano spontaneamente e non significavano nulla per conto loro; erano il tono, il ritmo e la pronuncia che possedevano un senso. Mi lamentavo con queste parole esprimendo il profondo dolore e l'infinita desolazione che avevo in cuore. Non usavo le parole abituali poiché il mio dolore e la mia desolazione non avevano un oggetto reale. [Da Diario di una schizofrenica, Marguerite A. Sechehaye]

La lingua savant

Il rapporto che ho con la lingua è estetico, nel senso che trovo alcune parole o combinazioni di parole particolarmente belle e stimolanti. A volte leggo e rileggo una certa frase per le sensazioni che suscita in me. I sostantivi sono le mie parole preferite, perché sono le più semplici da visualizzare. Ho un ottima memoria visiva, e quando leggo una parola o una frase chiudo gli occhi e la visualizzo, dopodiché la ricordo perfettamente. Vi sono alcuni aspetti della lingua che trovo più problematici di altri. Le parole astratte sono molto più difficili da capire per me e ho un'immagine mentale di ognuna che mi aiuta ad afferrarne il significato. Ad esempio la parola “complessità” mi fa pensare ad una treccia di capelli con varie ciocche che formano un insieme composito. Allo stesso modo la parola “trionfo” evoca nella mia mente l'immagine di un grande trofeo dorato. Se sento parlare del “trionfo elettorale” di un politico, immagino quest'ultimo che solleva un trofeo sopra la testa come l'allenatore di una squadra di calcio. Alcune strutture sintattiche sono particolarmente complicate da analizzare per me, come: "non è inesperto in queste cose", dove le due negative (non e in) si annullano. Da bambino trovavo decisamente oscure le espressione idiomatiche. Quando sentivo che qualcuno aveva del fegato pensavo: ma non lo abbiamo tutti il fegato? […]
Da bambino accarezzai per anni l'idea di creare una lingua tutta mia per alleviare la mia solitudine e godere del piacere che provavo giocando con le parole. A volte, quando sentivo un'emozione particolarmente forte o mi trovavo di fronte a qualcosa di molto bello, nella mia mente si formava spontaneamente una parola nuova che non avevo idea da dove venisse. Allo stesso modo, trovavo spesso al lingua dei miei coetanei stridente e confusa. Venivo preso in giro perché usavo frasi lunghe, accurate ed eccessivamente formali e, quando ricorrevo a uno dei miei neologismi per esprimere ciò che sentivo, non venivo quasi mai capito. I miei genitori mi dicevano di smettere di "parlare di modo strano". Malgrado ciò, continuai a sognare che un giorno avrei parlato una lingua tutta mia che mi avrebbe aiuto ad esprimermi compiutamente e che non sarei stato preso in giro o rimproverato per il fatto di utilizzarla. Quando smisi di studiare mi resi conto che avevo il tempo di perseguire seriamente quell'idea. Scrivevo le parole che mi venivano in mente e sperimentavo diverse possibilità di pronuncia e di costruzione delle frasi. Battezzai la mia lingua "manti" dal finlandese “manty” che significa pino. Molte delle parole del manti sono di origine baltica e scandinava cosi come i pini sono originari dell'emisfero boreale e sono particolarmente diffusi in Scandinavia e nella regione baltica. Ma c'è un altro motivo per la scelta di questo nome: i pini crescono spesso insieme in grandi gruppi e simboleggiano l'amicizia e la collettività.
Il manti è provvisto di una sua grammatica e di un vocabolario composto da oltre mille parole, ed è in continuo divenire. Ha attratto l'interesse di numerosi studiosi del linguaggio che ritengono possa contribuire a far luce sulle capacità linguistiche che condivido con altri savant.
Uno degli aspetti che amo di più di giocare con la lingua è la creazione di nuove parole e idee. Nel manti cerco di fare in modo che le parole riflettano i rapporti fra cose diverse: “hamma” (dente) e “hemme” (formica, un insetto che morde) e “rat” (cavo) e “ratio” (radio). Alcune parole hanno significati multipli e correlati: “puhu”, ad esempio, può significare vento, respiro e spirito.
Il manti possiede molte parole composite: “puhekello” (telefono, letteralmente “campana parlante”), “ilmalav” (aeroplano, letteralmente “nave dell'aria”) “tontoo” (musica, letteralmente “arte del tono”) e “ratalo” (parlamento, letteralmente “luogo di discussione”) .
Quanto ai termini astratti, vi sono diversi modi per esprimerli. Uno è la creazione di un composto: il concetto di ritardo si traduce con “kellokult” (letteralmente “debito di orologio”). Un altro metodo consiste nell'utilizzare coppie di parole, come avviene in estone, lingua appartenente al ceppo ugro-finnico. L'equivalente del manti del termine latticini è “pimat kermat” (latte e panne); quello di calzature è invece “koet saapat" (scarpe e stivali).
Sebbene il manti sia molto diverso dall'inglese, possiede molti termini facilmente riconoscibili dagli anglofoni come “nekka” (collo), “kuppi” (tazza) “purassi” (portafogli) “noot” (notte) e “pepi” (bimbo). Il manti è l'espressione tangibile e comunicabile del mio mondo interiore. Ogni parola, con i suoi colori e la sua consistenza è per me un'opera d'arte. Quando penso o parlo in manti è come se dipingessi con le parole. [Da Nato in giorno azzurro, Daniel Tammet]

venerdì 10 febbraio 2012

Il campo di concentramento: l'identità, la disidentità e l'an-identità.

[…] La guerra, le migrazioni, il caos, tristi animali dell’apocalisse a cavallo tra i due millenni, interessano dunque qui non solo perché ci precipitano nel dramma dei nostri giorni e perché proiettano una nube plumbea sul nostro futuro, ma anche perché intersecano in maniera decisiva le vicende dell’identità e della disidentità. La guerra ha il fascino magnetico della lucida bipenne che ordina il disordine, che normalizza il caos: di qua del taglio netto ci siamo noi, gli identici omologati dalla medesimezza; di là, fuori, ci sono gli altri, i non identici, i diversi che minacciano la nostra salvezza facendosi specchio del nostro caos terrorizzante. Come una perfetta geometria appare allora agli occhi di ogni gruppo di identici, di co-identici nella medesimezza, il fatto che il Kosovo ha il suo nemico nella Serbia, esattamente come la Nato ha il suo nemico nella Serbia, esattamente come la Serbia ha il suo nemico nella Nato e nel Kosovo; che da quella parte, o dall’altra, si lotta per l’indipendenza, mentre dalla parte simmetrica si lotta per l’asservimento dei popoli. Ma la guerra, figlia del caos e dei metissaggi delle migrazioni, si trasmuta in prolifica madre di caos e di migrazioni, sfociando sempre più spesso e sempre più massicciamente nella forma della pulizia etnica, paradossalmente scatenata proprio per normalizzare il caos, per purificare il diverso perché gli accade di parlare una lingua diversa, di provenire da una razza diversa, di adorare un dio diverso.

Ora, le migrazioni alle quali assistiamo, per molti aspetti drammatici e disperati, sono probabilmente uguali a tutte le migrazioni di tutti i tempi; un fenomeno spaziale di masse di individui senza orizzonte che attraversano un limite, escono da un luogo proprio per entrare in luogo d’altri, diventando, nel collo della clessidra, stranieri rispetto alla terra da cui sono partiti e stranieri verso la terra di approdo. Ma nelle migrazioni attuali, - sembra non esserci ostacolo all’escalation dell’orrore, - troviamo un fenomeno che in qualche modo rappresenta un perfezionamento delle situazioni concentrazionarie. Ai migranti cacciati dal Kosovo non solo vengono sottratti beni e soldi, ma vengono tolti i documenti, strappate le targhe delle auto, bruciati i libretti di circolazione. Dopo, nessuno può chiamarli, perché sono senza nome; nessuno può riconoscerli perché sono state cancellate le loro coordinate di origine e di appartenenza; nessuno sa da dove vengono né dove vanno, perché propriamente, non vengono da nessuna parte e non vanno da nessuna parte. Come chi è senza nome. I nuovi tragici migranti semplicemente non sono. Non uguali a chi li caccia ma nemmeno differenti, impossibilitati ad accedere alle differenze dell’identità sono resi an-identici, secondo il concetto introdotto da Antonino Minervino. Una volta però approdati sulle nostre terre della ricchezza inaudita, gli ospiti nuovi an-identici, senza abiti e senza nome, gli stranieri venuti dal fango e dal mare diventano lo specchio allucinato dell’anima in cui ciascuno di noi incontra l’immagine delle proprie metamorfosi che non ha mai voluto vedere: il morto vivente, la larva farfalla, il Minotauro mostro e fratello. E da qui potrà ricominciare l’inesausto ritorno delle figure immutabili del ciclo, sulle tracce di un Teseo sempre disposto a riportare l’ordine nel caos, a purificare gli spazi contaminati dall’ospite ibrido, sia con la furbizia del gomitolo sia con la violenza della spada. Ma, anche nei giorni della guerra, delle migrazioni, del caos, la disidentità ci consente la scelta di abitare il labirinto assieme al Minotauro, senza gomitolo e senza spada. […] [Disidentità, Lai G., 1999]

sabato 4 febbraio 2012

"Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere" (Gb 42, 5-6)





"Gerard Haddad"

"Il simbolo vuol dire del linguaggio, questo linguaggio è moderato e organizzato da una legge interna al linguaggio e possiamo dire che è il complesso di Edipo e anche lui permette di organizzare questo mondo simbolico strutturato con questo complesso di Edipo, il terzo punto che lui chiama del reale, una cosa che non è ne immaginaria ne simbolica non possiamo ne parlarne ne immaginarla, dunque è qualcosa di impossibile, il réel è l’impossibile. Quale è l’impossibile, Lacan ha detto questo l’impossibile è il campo di concentramento e l’impossibile del nostro tempo è il campo di concentramento, è scritto così stampato venduto potete comprare il libro e vedere che non racconto delle barzellette. Questa parola réel, io l’ho preso molto sul serio perché anche nella mia analisi, una analisi didattica o non didattica, una analisi vera mi sembra l’incrocio l’incrociamento, l’incrocio, tra le esperienze vissute tra la cura e certe letture teorie che prendono allora un’altra dimensione. Lacan faceva la differenza tra il sapere e la verità, il sapere si può trovare nei libri, in google, all’università tra i libri buoni o non buoni siamo sommersi dalla conoscenza, dal sapere. Ma c’è un’altra cosa che è diversa che si chiama la Verità, la verità significa che ad un certo momento della vita facciamo degli incontri che ci fanno una specie di shock un incontro dal quale cresce un sapere altro che cambia la nostra vita. Io prendo un esempio della Bibbia che mi piace molto, è l’esempio di Giobbe, Giobbe in ebraico alla fine ha detto a dio “fino adesso credevo in te perché avevo sentito parlare di te, ma adesso ti ho incontrato” E dunque il sapere di dio era diverso era dall’incontro non era qualcuno che gli ha insegnato, ma lui ha toccato, va beh non c’è niente da toccare in Dio, va beh mi avete capito."

martedì 31 gennaio 2012

Riepilogo

Un breve riepilogo di quanto esposto in questi mesi: In primo luogo si è parlato di come le parole siano "metri di automisura", ossia di come si riferiscano unicamente a sé stesse nell'universo testuale, diversamente da eventi mentali e fisici che appartengono ad universi extratestuali. Successivamente, nell'ambito della linguistica cognitiva, si è cercato di inserire in una cornice teorica i collegamenti interuniversali attraverso la nozione di operazioni di costruzione.
Si è cercato, attraverso uno scritto di Frege di fare luce sulle relazioni che intercorrono tra i diversi aspetti del linguaggio (segni, significato, senso e rappresentazione) e successivamente è stata presentata la categorizzazione, fondata sul paradigma adposizionale costruttivo, che permette di assegnare i diversi gruppi morfemici di un testo a quattro categorie fondamentali: verbanti (le azioni), stativi (gli enti), circostanziali (i modificatori dei verbanti) e aggiuntivi (i modificatori degli stativi).
Sono stati poi approfonditi alcuni aspetti teorici particolarmente importanti: lo statuto ontologico ed epistemologico della parola, il metodo Freudiano di analisi dei fenomeni mentali e alcune osservazioni epistemologiche sulla struttura della teoria freudiana.
Dopo queste precisazioni teoriche è stata presentata una modalità di analisi grammaticale del trascritto, discusse le convergenze tra contenuto e struttura del testo, finendo poi per presentare le categorie di analisi grammaticale normative proposte dal Conversazionalismo.
Si è passati ad una modalità di analisi basata su marcatori verbali presentando il modello del ciclo terapeutico di Mergenthaler. Si è deciso, prima di presentare una analisi del trascritto basato su una grammatica descrittiva, poi di approfondire una critica all'analisi del trascritto in psicoterapia.
Infine, conclude questo riepilogo una analisi delle distinzioni fondamentali che si possono ritrovare fra le diverse tipologie di conversazione e le diverse modalità di percezione della conversazione.

Bibliografia

  • Analisi conversazionale costruttiva: Per una applicazione alla psicoterapia Federico Gobbo, 2011
  • Constructive Adpositional Grammars: Foundations of Constructive Linguistics Federico Gobbo, Marco Benini 2011)
  • La ricerca in psicoterapia, Dazzi, Lingiardi 2006
  • Alcune osservazioni epistemologiche sulla struttura della teoria freudiana, Nicolò Gaj e Giuseppe lo Dico, 2008
  • Costruzioni nell'analisi, Freud 1937
  • Creare il mondo sociale, Searle 2010
  • Strumenti per l'analisi dei testi. Introduzione all'uso di T-Lab Lancia F. 2004
  • L'analisi computerizzata del processo terapeutico M. Casonato, F. Gallo 2005
  • La conversazione Immateriale G. Lai 1995
  • Linguistica cognitiva Croft W., Cruse D. 2004
  • Il cambiamento imperfetto P. Colucci 2000
  • I discorsi dei media e la psicologia sociale M, Mazzara 2008

lunedì 30 gennaio 2012

Ulteriori distinzioni: la lettura cinestetica

Lo scritto di oggi si discosta dalla consuetudine stilistica che ho deciso di operare in questo blog, ossia di parlare esclusivamente per citazioni, o comunque leggeri riadattamenti di testi altrui.
Si tratta di poche precisazioni, o meglio ulteriori distinzioni a partire da quelle fondamentali rintracciate nell'ambito del Conversazionalismo fra conversazione materiale e conversazione immateriale. La prima si rifà alla conversazione tra due interlocutori in carne ossa, in un tempo e luogo definiti, la seconda invece riguarda la conversazione in differita, quando il Conversazionalista rivolge l'attenzione a conversazioni passate conservate nella propria memoria o su di un trascritto. In questo caso ci si ritrova in un universo eterogeneo al primo, dove lo spazio perde di importanza e il tempo cronologico lascia spazio al tempo logico.
Da questa distinzione appare chiaro che gli elementi ai quali il Conversazionalista presta attenzione cambiano: all'interno dell'universo immateriale sono le morfologie grammaticali ad avere importanza, si rivolge l'attenzione alla forma grafica del trascritto, a particolari ricorsività nell'uso dei tempi verbali e dei modi, alla predilezione per le principali o per le subordinate e per il tipo di subordinata, sia finale, causale, temporale o modale.
Le categorie utilizzate per codificare il trascritto sono quelle dalla grammatica normativa o qualora si preferisse di una grammatica descrittiva utilizzando modelli propri della linguistica cognitiva o il paradigma generativo-trasformazionale Chomskyano.
Ma in questa sede vorrei porre l'attenzione ai canali sensoriali attraverso i quali le parole vengono recepite dall'ascoltatore. Nella conversazione materiale, quando si ascoltano in diretta le parole dell'altro, le afferenze sensoriali sono primariamente uditive nel il contesto delle afferenze visive (la posizione e la mimica dell'altro oltre ad alcune caratteristiche del suo vestiario e del portamento ad esempio). Quando il Conversazionalista riprende in mano un foglio di carta su cui è stato trascritto il contenuto della conversazione, avviene una perdita, o un salto, fondamentale: le afferenze uditive vengono perse, e le afferenze visive hanno il ruolo primario, è la forma del trascritto a suggerire il senso del discorso, la punteggiatura, i segni prosodici fanno da contesto alla lettura.
Rimangono altre due forme di ascolto eterogenee rispetto alle prime due, in particolare quando il Conversazionalista riprende dalla propria memoria conversazioni passate, magari da pochi secondi, quando ancora sta ascoltando le parole del suo interlocutore e contemporaneamente rivolge l'attenzione alle parole appena dette, alla loro declinazione, ai modi verbali e ai loro tempi.
Questa forma di percezione, il ricordare, si discosta dalle precedenti, è ad appannaggio del solo pensiero e su come questa forma di conversazione interiore si svolga, e quali sensi siano in gioco, è per me un mistero e oggetto di interesse. Ma un'ultima forma di lettura o di ascolto della conversazione colpisce la mia attenzione: quando il Conversazionalista riascoltando le parole del proprio interlocutore le trascrive su di un foglio di carta, oppure a partire da un trascritto le ordina secondo le categorie di analisi che ha deciso di adoperare. Questa forma di lettura non è riconducibile a quelle precedenti, in questo caso la conversazione non chiama in causa solo le afferenze uditive e visive, ma anche le efferenze cinestetiche, il muovere il braccio, la mano su di un foglio di carta o sulla tastiera di un computer, metaforicamente le parole scorrono dai sensi lungo il corpo, con una incognita influenza che non sento trascurabile.


venerdì 27 gennaio 2012

La conversazione materiale e immateriale

Nella lettura di quanto proposto da Giampaolo Lai (1995) all’interno del testo “La conversazione immateriale” mi hanno colpito alcuni discorsi capaci di chiarire aspetti fondamentali dell’analisi linguistica del parlato e della sua trascrizione. Tali aspetti sono più delle distinzioni che delle definizioni, distinzioni tra i diversi approcci al dato linguistico nella conversazione. Una primo distinguo è tra lettura materiale (la trascrizione che avviene su foglio di carta) e la lettura immateriale quando si rivolge l’attenzione alla propria memoria, nella prima forma di lettura ci troviamo nell’universo visivo materiale, dove abitano i fogli di carta, nel secondo caso ci troviamo nell’universo visivo immateriale, dove le categorie del tempo e dello spazio cessano di avere importanza.
Le conversazioni che accadono in una unità di tempo materiale, tra gli interlocutori, ciascuno dei quali ascolta in diretta le parole dell’altro sono dette conversazioni materiali, tra persone materiali in carne ed ossa abitanti uno spazio materiale ben individuabile, un tempo del calendario e dell’orologio definiti, dove si scambiano parole e silenzi suscettibili di venir registrati in un qualsiasi registratore
Terminata la conversazione materiale catturata dal registratore, dopo un’ora, un giorno, un mese, il Conversazionalista può premere l’apposito pulsante per riudire quanto è stato detto. Questa forma di conversazione non è più identica alla prima, in quanto sono andati perduti, rispetto all’ascolto in diretta della conversazione materiale, alcuni elementi di pertinenza soprattutto dei canali sensoriali visivi, come cenestesici e olfattivi. Non vi è più l’immagine retinica dell’interlocutore a fare da contesto alle parole scambiate, cessano di esistere le suggestioni derivanti dal profumo, dalla bellezza e dalla mimica di chi parla. Ma sono conservati quasi tutti i silenzi, le parole, sui quali il Conversazionalista può provare a cogliere elementi che sono sfuggiti nell’ascolto in diretta.
Ancora più forte è il salto che la conversazione fa, o il salto che le viene imposto, nel passaggio dal nastro registrato al trascritto, su dei fogli di carta o su un computer. Vi è un salto dall’universo acustico all’universo visivo, un salto irreversibile malgrado la possibilità di corredare le parole del testo trascritto con opportuni indicatori o simboli prosodici, dello stesso genere di quelli scritti in corsivo dall’autore di un’opera teatrale a uso degli attori e del regista. Tuttavia, nel testo scritto, la musica, il ritmo, il timbro, le cantilene assolutamente tipici della persona parlante, come potrebbero essere le sue impronte digitali, sono perduti. Lai evidenzia così tre salti, separati l’uno dall’altro da intervalli più o meno lunghi, ore, giorni mesi, i salti dalla conversazione materiale originale all’ascolto materiale, delle conversazione registrata su microcassetta, alla lettura materiale del testo della conversazione trascritta su carta o sul display di un computer.
Ma queste distinzioni non sono le ultime, mentre il Conversazionalista ascolta le parole che via via vengono dette, nell’universo materiale acustico, il Conversazionalista nello stesso tempo legge, in differita, nell’universo visivo immateriale, nei floppy disk della sua memoria, le parole che gli sono state dette, e che ha ascoltato, in diretta, un istante, qualche secondo prima. Così la mente del Conversazionalista, oscilla in due universi, come oscilla la vista nelle figure ambigue, o vaso o volto, mai tutte due assieme, tra l’universo materiale acustico e l’universo immateriale visivo.
Da quanto detto, dovrebbe risultare abbastanza chiaro che il passaggio, dall’ascolto del testo nell’universo acustico della conversazione materiale, alla lettura, nell’universo visivo della conversazione immateriale, del trascritto in qualche memoria, non è dello ordine di una traduzione, da una lingua ad un’altra, di un oggetto che resta il medesimo. Il salto di cui stiamo parlando ci porta da un universo ad un altro universo funzionalmente eterogeneo rispetto al primo, ciascuno dei due essendo retto da leggi e basandosi su categorie estranee o opposte a quelle dell’altro. Intanto, l’universo acustico dell’ascolto materiale è dominato dalla categoria del tempo, del tempo materiale cronologico, del calendario e dell’orologio, in cui i fonemi prendono corpo e vita per muoversi nei canali acustici dove variamente combinandosi producono suoni e musiche particolari. L’universo della lettura immateriale è invece dominato dalla categoria dello spazio, in cui i grafemi balzano agli occhi nell’istante limite del flash. Se anche le parole che si concatenano nelle frasi e nei periodi sono rette dalla consecutio temporum, si tratta di un tempo logico, non cronologico, nell’universo visivo immateriale. Ma, soprattutto, nell’universo acustico dell’ascolto materiale è questione di concrete persone materiali, in carne e ossa, tra le quali avvengono azioni materiali, concrete, inserite nello spazio fisico e nel tempo materiale. Nell’universo visivo della lettura immateriale è questione di soggetti grammaticali e di predicati verbali. E’ il salto dall’universo abitato da persone concrete e dalle loro azioni, all’universo dei soggetti grammaticali e dei predicati verbali, che sancisce il salto decisivo tra conversazione materiale e la conversazione immateriale [riadattamento da: La conversazione Immateriale, Giampaolo Lai, 1995]

mercoledì 18 gennaio 2012

Un esempio di analisi descrittiva del testo

Precedentemente ho trattato dell'analisi grammaticale del trascritto secondo le metodologie proprie del Conversazionalismo, in questa sede vorrei proporre una analisi del medesimo caso condotta attraverso una grammatica descrittiva in contrapposizione ad una analisi grammaticale normativa. Sui possibili vantaggi che questa metodologia alternativa comporta discuterò in un'altra sede. In questo caso vorrei focalizzare l'attenzione su un particolare approccio al trascritto basato sulla linguistica cognitiva ed elaborato nel testo Constructive Adpositional Grammars: Foundations of Constructive Linguistics (Gobbo, Benini 2011), per una sua prima applicazione al trascritto clinico: Analisi conversazionale costruttiva: Per una applicazione alla psicoterapia (Gobbo, 2011).



Verbante

Valenza

X

Y

Z




So

ricorda

sono tagliato

sono rimasti

ero venuto

avevo sospeso

sono rimasto

fare

non fare

è trascinata

avevo detto

avevo avuto

avevano tranquillizzato

dicendo

era

sono venuti

hanno dovuto asportare

è

è

hanno fatto

stanno facendo

dovrebbe finire

è

ho capito

non è

speriamo

siano andate

sono andate

speriamo

faccia


(Io)

lei

(Io)

Loro

Io

(Io)

(Io)

-

-

La cosa

(Io)

(Io)

Loro

Loro

Tutto

Linfonodi

Loro

La situazione

Essa

Loro

Loro

Essa

Essa

(Io)

Essa

Noi

metastasi

esse

noi

terapia

Se ricorda

-

i capelli

-

-

-

-

-

-

Se stessa

avevo avuto melanoma

una operazione

-

-

a posto

fuori

-

grigia

metastasi

-

una chemioterapia

-

un ciclo

-

una terapia

altre metastasi

in giro

ci

-

fuori

-

-

-

-

-

-

-

-

-

-

a lei

-

a me

a me

-

-

-

-

-

a me

a me

-

-

-

-

-

-

-

-

-



Tabella 1: Il punto di arrivo di un’Analisi Conversazionale Costruttiva.

La tab. 1 rappresenta il punto di arrivo di una analisi conversazionale costruttiva, in questo caso ci si è limitati ad inserire solo alcuni degli aspetti che questa analisi mette in evidenza. Come espresso in precedenza, il verbante rappresenta il parallelo percettivo di un’azione, di un movimento. X, Y e Z rappresentano invece i referenti (gli oggetti e persone) che abitano questo spazio e saturano la valenza del verbo. Per raggiungere questa tabella si è prima passati ad evidenziare tutti i verbanti del testo, una volta identificati si è passati ad attribuire un punteggio di valenza, ossia ad osservare quanti referenti ammette quel particolare verbo. Una volta identificato tale valore con l’ausilio di un vocabolario [Gobbo, 2011], si ricerca all’interno di ogni enunciato retto da quel particolare verbante i referenti corrispondenti. Segnandoli rispettivamente alla colonna che gli compete, X quando rappresentano il soggetto, Y quando rappresentano l’oggetto e Z quando rappresentano beneficiario di un’azione. Anche in questo caso si nota, subito e a colpo d’occhio, come fra gli attanti X dopo il 12 verbante, non compare più l’Io, mentre si popola di loro, linfonodi, situazioni etc. L’agenticità non è più dell’io, ma dell’altro, e l’io per ben tre volte, viene rilegato al ruolo di Attante Z, che come diremo rappresenta il dativo per la grammatica tradizionale, mentre per quella cognitiva rappresenta l’ente che vede modificato il proprio status dal processo messo in atto dall’Agente. Vediamo quindi come l’analisi conversazionale costruttiva, fra i diversi aspetti di un trascritto, rende esplicita l’afferenza o meno dei predicati all’io delle frasi, ma oltre ad evidenziare questo, permette di osservare come si comportano gli altri attanti nel discorso, non è più solo questione di soggetti, ma anche di oggetti e beneficiari di una predicazione.

La tabella in allegato rappresenta un esempio, per praticità di presentazione sintetico di analisi CoCAL. Per ora non è necessario conoscere il significato dell’intestazione o dei diversi simboli presenti nelle colonne Adp. Basti sapere che, i gruppi morfemici che si trovano a livelli maggiori, sono gruppi morfemici ai quali il soggetto solitamente assegna più importanza, in termini propri della Linguistica Cognitiva ai quali il soggetto assegna la salienza maggiore. Inoltre sono i gruppi morfemici che il soggetto ha specificato e dettagliato in misura maggiore. E’ suggestivo, nello spazio visivo della conversazione, notare come, anche in questo caso a partire dal verbante evidenziato “avevo avuto una piccola operazione per un melanoma” la struttura stessa della narrazione cambia, in precedenza compatta, formata da frasi semplici puntuali, successivamente diventa più articolata, ogni singolo elemento della scena viene maggiormente dettagliato e posto in una posizione di salienza sempre maggiore.

Le frasi, prima una isolata dall’altra, vengono ora incastonate una dentro l’altra, come nel tentativo di riempire la scena di dettagli, dettagli che finiscono per confondere la narrazione più che per migliorarla. Suggestive sono in questo senso le immagini collocate ai livelli di salienza più alta: “Non è una terapia sicura” e “la situazione è un pochino grigia”; queste sono il risultato di due catene di traslazione nelle quali nel tentativo di fornire spiegazione su spiegazione, dettaglio su dettaglio, Lucio termina sempre allo stesso punto, in uno scenario di incertezza e indeterminazione, che è il solo oggetto della sua attenzione, il referente al quale implicitamente e inconsapevolmente Lucio assegna maggiore importanza.

La morte del soggetto grammaticale

Totale N = 94

Reggenza N = 6 = 6 %

Attanzialità N = 33 = 35.%

Agenti = 9 = 10%

Oggetti = 22 = 23 %

Termine = 3 = 3%

Modificazione N = 49 = 52%

Circostanziali = 40 = 42%

Aggiuntivi = 9 = 10%

Questo calcolo delle frequenze dei gruppi morfemici utilizzati dal parlante ci informa sulle sue modalità linguistiche di organizzazione della scena percettiva che sta narrando. Riprendendo la tassonomia a quattro caratteri grammaticali (Verbanti, Attanti, Circostanziali e Aggiuntivi), paralleli linguistici di movimenti, personaggi, circostanze e caratteristiche dei personaggi emergono alcune peculiarità di questa modalità narrativa. Il soggetto sembra polarizzare la sua narrazione nella modificazione (52%) degli eventi che sta raccontando, ossia è concentrato sul contesto di quanto dice più che sul ciò che sta effettivamente accadendo. In particolare, nella sua modalità di descrizione degli eventi appare concentrato presentemente sulle circostanze (Circostanziali = 42%) che sulle caratteristiche degli Attanti (Aggiuntivi = 9%).

Approfondendo l’analisi, dividiamo in 2 parti il segmento di testo analizzato, in particolare analizzando assieme i periodi che si sviluppano intorno ai reggenti 1, 2, 3, 6 (caratterizzati dalla presenza dell’io) e 4 e 5 (caratterizzate dall’eclissi dell’io).

Eclissi dell’io

Presenza dell’io

Totale = 51

Reggenti = 2 = 4%

Attanti = 17 = 33%

X= 12 = 24%

Y = 14 = 27%

Modificatori = 32 = 63%

ESUI = 26 = 51%

ASUO = 6 = 12%

Totale = 40

Reggenti = 3 = 7 %

Attanti = 19 = 47 %

X = 10 = 25%

Y = 9 22%

Modificatori =18 = 45%

ESUI = 15 = 37%

ASUO = 3 = 8%

Da questo confronto appare lecito ipotizzare una relazione fra tasso di modificazione circostanziale ed eclissi dell’io, almeno per quanto riguarda questo parlante. Infatti sembra ipotizzabile che assieme alla scomparsa dell’agenticità all’interno del discorso avvenga uno spostamento sulle circostanze della narrazione, più che sui referenti e le azioni che in questa narrazione vengono descritte. La stessa struttura grammaticale cambia, il soggetto organizza durante l’eclissi dell’io 51 gruppi morfemici su due reggenti, con tasso di reggenza quindi del 4%, viceversa, tale tasso di reggenza quasi raddoppia in presenza dell’io, dove su 40 gruppi morfemici i reggenti sono tre (7% su 40 gruppi morfemici) [Tesi Magistrale: Geometrie Grammaticali, Preziosi R, 2011].

giovedì 5 gennaio 2012

Una critica all’analisi del trascritto in psicanalisi

- Una volta che il testo della seduta è reso pubblico il materiale può essere letto da infiniti punti di vista quindi abbiamo tanti testi quanti sono i lettori.

Questo argomento è sostenuto dalla corrente di pensiero ermeneutica della psicoanalisi. In risposta a questa posizione gli autori sottolineano innanzitutto che l’ermeneutica è una disciplina che si basa sull’interpretazione di un testo e che senza i trascritti delle sedute vedrebbe a mancare proprio il testo su cui gli ermeneutico poggiano le loro posizioni. Mancherebbe dunque la fonte primaria, il testo della seduta, da sottoporre a critiche e interpretazioni secondo i loro metodi e si disporrebbe solo di fonti di seconda mano rappresentate dai resoconti clinici forniti dal terapeuta.

Inoltre anche le affermare che la psicanalisi è una disciplina ermeneutica non elude la necessità della ricerca empirica. Infatti sia gli assunti fondamentali, sia le controversie generate da differenti interpretazioni richiedono una verifica empirica per essere convalidati. Il richiamo ermeneutico alla centralità dell’interpretazione della soggettività non devo portare alla conclusione per cui necessariamente si arriverà a cuna condizione in cui avremo tanti testi quanti sono i lettori. Infatti l’interpretazione è sempre disciplinata da standard o regole interpretative condivise da un gruppo di analisti o da una scuola di pensiero. E’ importante però che gli standard, i dati e le regole su cui gli analisti in questione si sono formati siano resi pubblici. [La ricerca in psicoterapia, Dazzi, Lingiardi 2006]

martedì 3 gennaio 2012

L'analisi del trascritto terapeutico tramite marcatori verbali

Questo testo vuole rappresentare una breve sintesi delle metodologie di codifica del testo elaborate da Mergenthaler nello studio dei cicli terapeutici. Il modello proposto mira a fornire uno strumento informatico in grado di evidenziare all’interno del trascritto i momenti chiave o le buone ore, sinonimo di insight. Tali momenti risultano essere quei momenti nei quali una struttura resistente al cambiamento si sgretola all’interno della mente del paziente permettendogli di proseguire in modo nuovo nei suoi discorsi. All’interno del modello sono prese in considerazione 4 variabili: Emozione, Astrazione, Polarità emotiva (positiva o negativa) e stile narrativo. Centrale nella comprensione del modello di Mergenthaler è il fatto che non è una particolare configurazione statica nel tempo di queste variabili a segnalarci la buona ora che è al contrario segnalata da un particolare pattern in cui valori significativi di queste variabili si presentano in un preciso ordine temporale. Scopo di questo breve elaborato di sintesi è evidenziare le modalità attraverso le quali sono stati costruiti i dizionari usati nella codifica automatica del trascritto.